Riportiamo la testimonianza di Francesca, mamma di 44 anni che grazie a un carattere da combattente e all’amore della sua famiglia, è riuscita a superare una fase delicata della sua vita.

Un sacco da raccontare: si chiama così la campagna organizzata da FAIS (la Federazione Associazione Incontinenti Stomizzati) per far conoscere e raccontare la stomia. E io, in effetti, da raccontare ne avrei un sacco. Il mio incontro con la stomia, un intervento chirurgico che crea un’apertura sulla parete addominale per collegare l’intestino - o l’apparato urinario - con l’esterno e permettere di scaricarsi, è avvenuto in modo del tutto inaspettato e improvviso. E non è stato un incontro facile.

Tutto è nato da una fistola, ma non una di quelle banali o semplici (ammesso che ce ne siano). Una fistola subdola (retto vaginale dovuta a un sospetto Morbo di Crohn), che a sette giorni dal primo intervento chirurgico, fatto per tentare di guarirla, è riuscita a far saltare tutti i punti e tutti i piani. Risultato: il giorno del mio 43esimo compleanno ho ricevuto in regalo una terapia in camera iperbarica e un secondo intervento, colostomia inclusa.

“Mi dispiace è proprio brutta” aveva esordito il dottor Leonardo Lenisa, chirurgo colon proctologo dell’ospedale Humanitas San Pio X che mi aveva preso in cura. E per cercare di tranquillizzarmi aveva poi pronunciato la parola “stomia” con tutta la delicatezza possibile, ma a me era sembrata una sentenza di morte. L’associazione era stata immediata: disagio, puzza, schifo. Invece non è così e ora a distanza di un anno posso dirlo con assoluta certezza e tranquillità.

Dopo aver lasciato parlare il dottore ed essermi documentata a casa avevo capito che la stomia nel mio caso sarebbe stata un jolly, non un due di picche: tra le opzioni possibili, la migliore. E avevo scoperto che la “mia” idea di stomia era sbagliata. La stomia non puzza (il mio primo pensiero era stato quello), non è così ingestibile (online si trovano tanti video di stomizzati che si cambiano con disinvoltura). Bisognava superare lo schifo, ma in fondo si trattava solo di un’idea.

Me l’hanno dimostrato con grande naturalezza le mie figlie, di 7 e 8 anni, che appena arrivata a casa avevano accolto la notizia come un’interessante e avvincente avventura. “Quindi mamma fai la cacca dalla pancia?” mi aveva chiesto Viola, la più piccola. E con un entusiasmo travolgente aveva aggiunto subito “Fooooorte mamma!”. Da lì in poi il mio anno con la stomia è stata un’escalation di esclamazioni entusiastiche da “sei fortunata mamma, se ti scappa di notte non devi neanche alzarti dal letto” a “mamma spiegami tutto così se capita a me il dottore non deve rispiegarmelo” fino a “la mia mamma non va mai in bagno perché ha un sacchetto magico” detto orgogliosamente davanti agli amici, alzandomi la maglietta per mostrarlo a tutti.

Sì, perché le mie bambine mi hanno insegnato che quando si è malati non bisogna nascondersi o vergognarsi. Certo ci vuole tempo per digerire una stomia (la mia oltretutto sapevo che sarebbe stata temporanea), ma ho avuto dalla mia parte un medico, il dottor Lenisa, fuori dal comune: un vero professionista, ma soprattutto un uomo dotato di grande umanità, tatto ed empatia. Uno di quei chirurghi che hanno a cuore i pazienti e te lo trasmettono con chiarezza e calore, e anche (il che non guasta) con una spiccata ironia. “So che psicologicamente è dura da accettare” mi aveva detto il dottor Lenisa. “Ma vedrai che starai subito bene, molto meglio di come stai adesso”. E aveva ragione. Il giorno dopo l’operazione ero in piedi, un mese dopo riuscivo a gestire tutto con normalità, disagi compresi (se ci si libera dai pregiudizi e ci si apre ad altri punti di vista, la nuova prospettiva può riservare piacevoli sorprese). Riprendere la mia normale routine è stato più facile di quanto immaginassi, merito anche della mia stomaterapista, Simona Furlan, un vulcano di energia e di simpatia che dal primo incontro ha saputo darmi la carica e spiegarmi con chiarezza e disinvoltura tutto quello che avrei dovuto fare.

La stomia, per me, non è stato - incredibile - un dramma, ma il sollievo di non sentire più dolore e di potermi muovere, di nuovo, con disinvoltura (o quasi). Per me è stato un po’ come gestire un neonato: bisognava accudirlo, cambiarlo, lavarlo, svezzarlo… A volte mi ha sfinito e mi ha creato problemi, ma niente di tragico.

L’aspetto più difficile e inaspettato da gestire è stata la reazione delle persone. Sono spesso loro, infatti, che si ritrovano incapaci di affrontare la situazione e che non riescono a superare l’idea che la stomia sia un “problema imbarazzante”. Almeno così è stato, in parte, nel mio caso. Qualcuno si è allontanato, altri hanno preferito fingere che la “cosa” non esistesse, altri invece hanno imparato a scherzarne con me. “Non ti preoccupare, non si vedrà niente” è stata la frase che ho sentito ripetere più spesso. Ma io non ero preoccupata per quello. Ho capito però che ognuno ha i suoi tempi, i suoi modi, che non bisogna imporre la stomia agli altri, ma nemmeno nasconderla per far piacere agli altri. Così al mare ho indossato il bikini come ho sempre fatto e non “il costume intero così non si vede”.

Ho vissuto la stomia per come mi è venuto spontaneo fare: ne ho parlato apertamente, ho giocato con le mie bimbe disegnando i sacchetti, l’ho affrontata con ironia. E mentre mio marito mi chiamava amorevolmente “sacchettina mia”, io alle amiche solerti, ma preoccupate, avevo detto subito: “bè, quest’anno la moda ha decretato il marsupio da donna come accessorio must have. Quindi io che sono fashion e sempre sul pezzo, non potevo farne a meno!”

È vero, oggi la stomia per me è solo un ricordo (sono stata ricanalizzata lo scorso ottobre), ma ne parlo ancora volentieri, perché non è un ricordo doloroso o triste, piuttosto un’avventura che si è conclusa nel migliore dei modi e che mi ha fatto conoscere persone speciali e mi ha insegnato ad affrontare i problemi con il sorriso, perché funziona sempre.

Testimonianza a cura DI FRANCESCA GUERINI ROCCO

In questa rubrica pubblichiamo la storia di una persona che ha superato un incidente, un trauma, una malattia e con il suo racconto può dare speranza agli altri.
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