Francesco Fiore, 36enne di Matera, si è salvato grazie a due interventi cardiologici a Bergamo. E ha conquistato il terzo posto nei Giochi Mondiali dei Trapiantati in Australia.

È di Matera, ma Bergamo ha cambiato la sua vita, che poteva finire presto, invece è andata avanti nel migliore dei modi. Perché Francesco Fiore, 36 anni, trapiantato di cuore due volte, più una volta di reni, sempre all’ospedale Papa Giovanni (anzi, nel primo caso si deve parlare ancora di Ospedali Riuniti), si è piazzato terzo nel tennis alle Olimpiadi dei trapiantati disputate a Perth, in Australia, ad aprile 2023, conquistando la medaglia di bronzo sia per il singolo sia per il doppio maschile. Niente male davvero.

L’emblema delle sfide che ha vinto contro la malattia ce l’ha tatuato sulla caviglia: un cuore con due ali d’angelo, che rappresentano i due donatori sconosciuti, quelli che adesso non ci sono più ma che gli hanno regalato un cuore nuovo, anzi due. Il primo trapianto risale al 1988, quando Francesco aveva appena 10 anni; il secondo, di cuore e reni, nel 2017. Ora Fiore al Papa Giovanni ci torna comunque periodicamente, ogni quattro mesi per i necessari controlli: «Un viaggio lungo, ma parto sempre con gioia. Mi piacerebbe anche partecipare a iniziative a Bergamo per diffondere la cultura della donazione di organi. Del resto, sto girando l’Italia come testimonial da tempo: perché non farlo proprio dove tutto è ricominciato, per me?». Sul bronzo a Perth dice: «Quando mi hanno messo quella medaglia al collo tutta la vita mi è passata davanti agli occhi, ho sentito dentro tutta la fortuna di cui ho beneficiato e tutta la sofferenza che ho attraversato. Nel mio piccolo mi sono sentito un campione: dopo tanto dolore è arrivata questa gioia immensa. Quella medaglia è stata un insegnamento, la metafora della vita, dove per ottenere la felicità bisogna essere pronti a soffrire».

L’amore per il tennis arriva da lontano. Di più, ce l’ha sempre avuto nel sangue, perché suo padre ne è maestro, come i suoi due fratelli. E lui maneggia la racchetta da quando aveva tre anni. La miocardiopatia dilatativa, patologia che riduce la capacità del cuore di pompare sangue, ne ha però minato la carriera fin da bambino. Visto che rischiava l’infarto da un momento all’altro, venne messo in lista di attesa per un trapianto di cuore all’ospedale specializzato di Bergamo. Era in quinta elementare quando arrivò il momento giusto: il padre lo raggiunse in classe per dirgli che dovevano partire immediatamente con l’elisoccorso, perché quando il momento giusto arriva non bisogna lasciar passare troppe ore. Il tempo necessario per attraversare l’Italia ed eccolo in sala operatoria. L’operazione riesce e dopo poco tempo Francesco può tornare sui banchi di scuola. E impugnare la racchetta.

La buona salute però non va avanti molto: a 15 anni ricominciano le magagne, questa volta ai reni, e deve ricorrere alle dialisi tre volte alla settimana. Non è in forma, fatica negli studi e per il tennis le energie non ci sono. Non una vita ideale, insomma, con tante ore passate in ospedale. A 29 anni, mentre guarda una partita di calcetto, accusa un malore e cade a terra. È arrivato il momento di cercare un altro cuore nuovo, quindi si mette di nuovamente in lista. La chiamata arriva ancora una volta da Bergamo. Il trapianto (cuore e reni) riesce ancora una volta, ma non è più un “pischello”: il recupero è più lento, ricomincia a camminare piano piano e sceglie di fare, da solo, il cammino di Santiago. Un’impresa che ha contribuito a forgiare il suo animo, dice, e che gli dà il modo di entrare in contatto con altri donatori. Poi un giorno, al mare, un amico gli chiede di giocare un po’ a tennis. Si trova subito a suo agio. Da allora non ha mai smesso.

Lo scorso marzo è diventato testimonial dell’azienda ospedaliero-universitaria senese Le Scotte, incontrando le scuole della città toscana per raccontare la sua storia e il valore della donazione. «Non pretendo di far cambiare idea a chi ha detto no (da vivente) a una eventuale donazione dei propri organi e tessuti, perché se qualcuno ha voglia di portarseli nella tomba è legittimato a farlo, potrebbero sempre servirgli nell’aldilà (sorride, ndr). Ma sapevate che solo il 16 per cento degli italiani si è espresso in merito alla volontà o meno di donare i propri organi? Il restante 84 per cento è indifferente al tema, o non ha due minuti di tempo per esprimersi o ancora peggio non ha voglia di pensare alla propria morte, forse perché crede che non pensandoci non accadrà mai… Tutto questo, in un paese come l’Italia, fatto di eccellenze e premi Nobel, è inaccettabile, e io nel mio piccolo volevo e voglio fare qualcosa affinché le cose possano cambiare».

A cura di Sara Carrara