Un nuovo modo di concepire l’abitazione e gli spazi comuni in una sorta di “villaggio urbano” che favorisce lo scambio, le relazioni e la solidarietà tra vicini. Nato in Scandinavia una cinquantina di anni fa il fenomeno del cohousing o coresidenza si è diffuso prima in Australia, Usa e Giappone per poi approdare anche in Italia, dove al momento sono attive start up a Ferrara, Milano, Forlì, Torino, Lucca, Bolzano, Bologna e Reggio Calabria. Ma di che cosa si tratta? E quali sono i vantaggi? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Erica Chitò, psicologa clinica.

Dottoressa Chitò, cosa s’intende per cohousing?
Il cohousing, che si può tradurre in coabitazione, è una vera e propria filosofia di vita, in cui si sceglie di condividere spazi domestici comuni, ma anche e soprattutto tempo, esperienze e affetto con gli altri residenti. L’idea nasce per esigenze diverse che accomunano le persone, fino ad approdare alla co progettazione degli spazi magari in ex scuole o fabbriche dismesse per creare ambienti fatti su misura, domotici e green, in cui ognuno ha un proprio alloggio privato, ma può condividere grandi living per attività ricreative, biblioteca, lavanderia, oppure orto o piscina. Una sorta di condominio senza amministratore, o di residence, ma con un intento sociale condiviso e una scelta di tipo valoriale importante come il desiderio di ricreare una comunità allargata e la volontà di costruire relazioni stabili. Nel cohousing ognuno si prende l’impegno di rendersi disponibile per qualche servizio, accudire i bambini, cucinare, fare commissioni o piccole manutenzioni per godere poi di altri benefici derivanti dalla reciproca solidarietà. A differenza del condominio nel cohousing il vicinato si sceglie, nel senso che chi fonda il progetto stabilisce anche quali sono gli intenti dello stesso e per entrare a farne parte bisogna essere “accettati” come nuovi cohouser, quindi anche da questo punto di vista responsabilità personale e democrazia sono elementi fondanti.

Chi sono le persone che decidono di fare cohousing?
Ci sono realtà diverse, in Italia principalmente destinate a nuclei familiari con bambini che desiderano condividere la quotidianità, però ci sono anche nuovi progetti dedicati ai giovani come l’esperienza a Bolzano, in cui under 35 possono usufruire di mini alloggi con ampi spazi comuni per rendersi autonomi dalla famiglia, oppure in Calabria, dove è nata una cohousing per ragazze single con bambini piccoli. In Europa non mancano i cohousing di persone anziane, che combattono la solitudine e condividono l’assistenza di personale domestico, oppure cohousing misti, in cui persone anziane e giovani condividono le proprie risorse per vivere meglio. Non ci sono principi ideologici o religiosi alla base del cohousing e non sono posti vincoli all’uscita dalla comunità. In Italia è nata la Rete Nazionale Cohousing che permette ai gruppi che intendono partecipare a questa forma abitativa di sfruttare una rete di persone e professionisti che hanno già affrontato le tematiche di base, in modo da rendere più agevole l’inizio della progettazione.

Non solo per i giovani, anzi...
Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti, gli anziani che vivono in contesti di cohousing restano autosufficienti per una media di 10 anni in più rispetto agli anziani che vivono da soli. Continuare ad essere parte attiva della comunità in cui vivono infatti li stimolerebbe a rimanere autonomi e in buona forma fisica.

L’idea è sicuramente molto interessante sulla carta, ma nella pratica è davvero così semplice “mettere tutti d’accordo”?
In effetti questa scelta di vita non è per tutti, in quanto le dinamiche di gruppo che si creano spontaneamente con il tempo tendono a riproporre i conflitti che su scala minore ci sono in qualsiasi famiglia, incomprensioni, rivalità, mancanza di comunicazione, intromissioni non desiderate… senza dimenticare che le famiglie cambiano e così cambiano anche le esigenze di chi ne fa parte. Un buon punto di partenza è la conoscenza reciproca dei cohouser e la volontà di rispettare sempre i limiti personali e familiari, oltre che una buona dose di autocritica e impegno a non voler imporre il proprio punto di vista. Cosa non facile, ma sicuramente possibile. D’altra parte per ogni Itaca da raggiungere c’è sempre un viaggio costellato di sfide da superare e il cohousing è una risposta concreta all’esigenza di vicinanza e sostegno per sempre più persone che hanno individuato nel gruppo di vicinato un’alternativa alla famiglia naturale.

Una nuova famiglia “allargata” contro la solitudine
Come evidenziato da sempre più ricerche sociali, nelle grandi città soprattutto negli ultimi decenni si è sempre più diffuso il fenomeno delle “nuove solitudini”. Se una volta infatti le famiglie numerose e allargate (che spesso comprendevano anche i vicini) costituivano una rete di sostegno “naturale”, oggi per diversi motivi (ad esempio per spostamenti per lavoro o per studio) spesso ci si ritrova soli in contesti nuovi e senza appoggi “familiari”. Ecco allora che il cohousing può diventare un’occasione per recuperare dinamiche relazionali e di sostegno reciproco del vicinato, tipico delle generazioni passate.

a cura di Maria Castellano
con la collaborazione della dott.ssa Erica Chitò
Psicologa Clinica
Centro PsicoSalute Bergamo