«Diversi studi hanno ormai dimostrato un’associazione tra l’umore e il comportamento alimentare. D’altra parte è esperienza comune come al cibo vengano attribuiti significati diversi, non solo fonte di energia per vivere ma anche elemento consolatorio. In una certa misura tutto questo è normale. In alcuni casi però il cibo può potenzialmente indurre dipendenza: chi consuma, abitualmente e in quantità eccessive rispetto ai fabbisogni reali, alimenti particolarmente palatabili (cioè gratificanti per il palato) e calorici, rischia con il tempo più facilmente una perdita dell’autocontrollo alimentare». Chi parla è il dottor Valerio Barbieri, dietologo. Lo abbiamo incontrato per approfondire la cosiddetta food addiction (FA) o dipendenza da cibo, problema sempre più diffuso, che secondo le stime riguarda una persona su cinque, in particolare donne.

Dottor Barbieri, cosa si intende per dipendenza da cibo?
La food addiction è una forma di dipendenza mentale causata da e/o correlata con l’assunzione di particolari specifici alimenti, come i cibi-spazzatura (dolci, patatine, snack etc.), il cui sviluppo è stato ipotizzato negli ultimi decenni, soprattutto in relazione all’incremento delle situazioni di stress a cui la società moderna ci espone, alla facilità di accesso alle risorse alimentari nei paesi industrializzati e ai processi di trattamento che subiscono oggi gli alimenti (l’industria alimentare ha realizzato cibi “arricchiti” di zucchero, sale, grassi, i quali possono massimizzare le proprietà rinforzanti dei cibi tradizionali). Analogamente a quanto accade con le droghe, l’esposizione frequente a questi cibi può portare a risposte simili nei sistemi cerebrali cosiddetti “dopaminergico” (coinvolto in numerosi meccanismi neurologici tra cui i processi di gratificazione) e “oppioide”. Le analogie sarebbero riscontrabili però anche a livello comportamentale (uso della “sostanza” per sedare emozioni negative, meccanismi di ricompensa, spinta all’assunzione di cibo, elevata sensibilità verso stimoli che scatenano la ricerca di sostanze o cibo): un deficit nei meccanismi di ricompensa è un importante fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti impulsivi (cioè privi di una razionale motivazione) e compulsivi (quindi infrenabili). Inizialmente, il consumo di cibo altamente palatabile ha sia una funzione di rinforzo positivo (che porta sensazioni piacevoli) sia una di rinforzo negativo (che porta a sensazioni di conforto) che possono nel breve termine normalizzare la risposta dell’organismo allo stress. L’assunzione abituale di questi alimenti, però, potrebbe amplificare i circuiti cerebrali dello stress e bloccare le vie neurologiche di ricompensa cosicché l’assunzione continuativa diventa obbligatoria per prevenire gli stati emotivi negativi.

Quali sono i sintomi che possono far sospettare di avere questo problema?
I sintomi più comuni sono la perdita di controllo alimentare (nonostante le conseguenze negative di cui si è consapevoli) e l’incapacità a smettere di cibarsi nonostante il desiderio di farlo. Possono essere presenti episodi di abbuffate compulsive, senso di conforto portato dall’eccesso alimentare, scarso controllo riguardo l’ammontare di cibo e la modalità di assunzione, eccessi alimentari in risposta a una situazione di stress. Uno strumento utile per identificare i soggetti con sintomi da “dipendenza alimentare”, sviluppato qualche anno fa (2009), è la “Yale Food Addiction Scale” (YFAS). Questa scala considera parametri specifici, tra i quali: la perdita di controllo riguardo al consumo di cibo, la presenza di un persistente desiderio o ripetuti e infruttuosi tentativi di smettere, un continuo comportamento alimentare alterato a dispetto dei problemi fisici e psicologici e un disagio relazionale con familiari e amici clinicamente significativo. La “Palatable Motives Eating Scale” (PEMS), invece, è una scala validata e riconosciuta per identificare i motivi che spingono a consumare cibi altamente palatabili: sociali (ad esempio, per celebrare un’occasione particolare con amici), di evasione (ad esempio, per dimenticare i problemi personali), di gratificazione (ad esempio, perché consentono di percepire sensazioni piacevoli) e di conformismo (ad esempio, perché amici o parenti vogliono che si consumino questi alimenti e bevande).

Cosa si può fare per uscire da questa spirale?
Numerosi studi hanno raccomandato, anche per la food addiction, l’applicazione del trattamento classico per le dipendenze da sostanze psicotrope includendo tanto gli interventi psicologici - psichiatrici quanto la riduzione dell’esposizione a quei cibi che creano la dipendenza. Sfortunatamente il trattamento standard dei disturbi alimentari è associato con un elevato tasso di ricaduta. In ogni caso, l’approccio deve essere multifattoriale. Esistono diverse tecniche comportamentali che in molti casi si rivelano efficaci, anche associate nei casi più seri e sotto stretto controllo medico a farmaci che agiscono sui livelli di dopamina e di serotonina, noto anche come ormone del buonumore. Attenzione però: perché possano essere davvero efficaci ci vuole tempo, anche fino a sei mesi.

"Stress, ansia e depressione hanno dimostrato un’alta correlazione patologica con il comportamento alimentare di simil-dipendenza”

Quanto è diffusa?
La prevalenza della food addiction (FA) nella popolazione adulta sembra essere del 19,9%, doppia nelle persone sovrappeso/obese rispetto ai normopeso (24,9% - 11,1%) e nelle femmine rispetto ai maschi (12,2% - 6.4%).
È inoltre più frequente nelle persone con più di 35 anni rispetto ai più giovani (22,2% - 17%).

a cura DI GIULIA SAMMARCO
con la collaborazione del DOTT. VALERIO BARBIERI
Scienze dell’Alimentazione
Referente medico Centro Disturbi
Alimentari Policlinico San Pietro
Ponte S. Pietro e Smart Clinic Orio Center