Erika Fragnito, oggi 33 anni, a 18 ha scoperto di avere la sclerosi multipla. «Ringrazio il cielo, mi vedevo già su una sedia a rotelle»

Ha scoperto di avere la sclerosi multipla nel 2008, ancora prima di compiere 18 anni. I problemi però, per Erika Fragnito, oggi 33 anni, erano cominciati prima, durante la terza superiore all’istituto Belotti. «Mi son svegliata la mattina e non vedevo dall’occhio destro - racconta - ma io sono miope e astigmatica, quindi inizialmente ho pensato fosse un semplice problema legato alla vista. Invece poi è saltato fuori tutt’altro. Sono andata a fare una visita oculistica dal dottor Saija a Palazzolo: non lo ringrazierò mai abbastanza, perché ha intuito quanto mi stava succedendo».

Il giorno dopo lo specialista ha ricevuto Erika agli Ospedali Riuniti di Bergamo per un approfondimento. «Non ero preoccupata, perché non pensavo di avere una malattia del genere. Poi durante la visita, con le domande sull’eventuale presenza di malattie neurologiche in famiglia, ho capito che le cose potevano volgere al peggio».

Segue l’incontro con la dottoressa Rotoli, neurologa, oggi in pensione: «Molto autoritaria, ma di una professionalità preziosa e profondamente umana. Mi è stato effettuato il prelievo del midollo spinale, ma la risposta definitiva è arrivata dopo tre mesi: una sofferenza. È meglio sapere una brutta verità subito piuttosto che restare nel limbo per così tanto tempo».

Alla fine, è arrivata la diagnosi. «Quel giorno me lo ricordo, perché mi ha cambiato definitivamente l’esistenza. E ricordo la frase che mi disse la dottoressa: “Oggi non apprezzi i fiori, ma domani apprezzerai anche quelli”. Non ne ho capito subito del tutto il significato: ero arrabbiata, pensavo che sarei finita sulla sedia a rotelle. Poi col tempo, ho capito quanto di vero c’era in quelle parole. Quando ti senti mancare la terra sotto i piedi, l’attenzione per le piccole cose belle della vita diventa fon-
damentale». Si capisce che quello che normalmente diamo per scontato, scontato non lo è, o almeno non per tutti.

Erika, che nel suo percorso è sempre stata accompagnata da mamma Grazia e papà Nicola (ma ha anche un fratello e una sorella), ha una grande energia. Eppure, convive con quel senso di stanchezza che «fa parte del pacchetto della sclerosi multipla. E questo, per una come me che farebbe mille cose insieme, come del resto mio padre, è un grosso limite. Sto cercando di togliermelo, questo iperattivismo, perché poi ne pago il conto a caro prezzo. Con la sclerosi multipla bisogna avere un gran rispetto per sé stessi, volersi bene».

All’inizio era arrabbiata con sé e con il mondo, faceva finta che la malattia non ci fosse. Si intestardiva a fare quello che non poteva fare. «È anche un po’ il mio punto di forza: quando mi impunto, mi impunto. Certo, ora devo farlo ai miei ritmi, senza esagerare». Per i primi nove mesi non ha praticamente fatto cure, perché la sua patologia non si mostrava particolarmente aggressiva: è di tipo recidivante-remittente, infatti, perché si alternano episodi acuti (recidive o ricadute) e periodi privi di sintomi o manifestazioni (remissioni). Poi, in una risonanza, cartina al tornasole di come si sta muovendo la malattia, s’è visto qualcosa che stava peggiorando, quindi ha cominciato a prendere l’interferone. «Mi procurava un po’ di febbre. All’inizio facevo una puntura alla settimana. Poi sono diventate tre le volte alla settimana e la mia vita si è dovuta adattare alle esigenze della terapia. È stato faticoso anche per il lavoro».

Erika avrebbe voluto iscriversi all’università, ma ha dovuto pensare ad altro, a 18 anni: a star bene, in parole semplici. Ora vive a Bolgare e «vorrei iscrivermi a Psicologia: sto studiando per il test d’ingresso». A lavorare, però, ha cominciato subito: voleva la sua autonomia. Ora fa la contabile per una ditta che si occupa di fiere, in Italia e all’estero. Al colloquio ha spiegato chiaramente la sua situazione: ha trovato comprensione. «Andavo, nonostante le punture: un filo di trucco, un bel vestito, e via. Fa niente se poi magari dopo due ore dovevo tornare a casa perché non stavo in piedi. “Io non sono malata”, mi dicevo». Quel modo di andare, però, l’ha salvata, insieme ai suoi tanti hobby. La pittura, ad esempio. «Sono sfoghi, per me. Io sono ragioniera, ma non mi basta. Ora sono nella fase “camminate in montagna”. Certo, devo calibrare gli sforzi».

La sua voce è squillante, ma semplicemente ha imparato a dosare bene le proprie energie, anche se magari non sempre ce la fa nello stesso modo. «Dormire, però, risolve tutti i problemi. Rallentando sto meglio: bisogna coccolarsi, perché il sistema nervoso ha bisogno di riposo». Soffre di astenia: nei momenti più acuti ha trovato un suo modo di ricaricarsi: «Vado in standby, faccio il mimino indispensabile. Entro nelle mie bolle e cerco di ricaricarmi, senza parlare anche se sono al lavoro. Rallento».

A tanti anni dalla diagnosi, Erika ringrazia il cielo: «Fino ad ora è andata bene. Certo, la paura resta, perché l’aggravamento può sempre arrivare. Ci si sente sotto minaccia. Per questo, tornando alla metafora del fiore, si impara ad apprezzare le piccole cose fino in fondo». 

A cura di Sara Carrara
In questa rubrica pubblichiamo la storia di una persona che ha superato un incidente, un trauma, una malattia e con il suo racconto può dare speranza agli altri.
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