Il termine “vitiligine” sembra derivare dal latino “vitium” nel senso di “macchia, imperfezione”. La malattia è caratterizzata dalla comparsa di chiazze bianche sulla pelle dovute alla perdita dei melanociti, le cellule che producono la melanina, la sostanza che colora la pelle. Cicli di progressione, seguiti da cicli di riposo e raramente ripigmentazione spontanea, si possono succedere indefinitamente. Si tratta di una condizione benigna, priva di sintomi sistemici, ma che ha importanti conseguenze psicologiche ed emotive.

Una lunga storia di pregiudizi
Testi indiani, risalenti a oltre 1500 anni prima della nascita di Cristo, già riportano descrizioni compatibili con la vitiligine. La malattia è stata, tuttavia, a lungo confusa con altre condizioni associate a lesioni cutanee ipocromiche. Nella Bibbia, non viene fatta, ad esempio, una distinzione tra lebbra, ben nota malattia causata dal Micobacterium leprae, e vitiligine. Tale confusione giustifica la stigmatizzazione sociale di cui la malattia è ancora gravata in alcuni Paesi. Tra gli Indu è pressoché impossibile per una donna con vitiligine trovare marito. Lo storico francese Michael Pastoureau, nel suo libro “L’Etoffe du diable” riferisce come, fin dai secoli più antichi, sia esistito un processo di stigmatizzazione per tutti i tessuti e le superfici variegate, “portatori” di qualcosa di negativo e diabolico. L’esempio tipico è quello di Arlecchino con il suo vestito a chiazze: maschera che riscuote simpatia ma anche inquietudine. Nella Divina Commedia di Dante è una lince maculata, simbolo della lussuria, a impedire il cammino verso la virtù.

Autoimmunità e genetica
Allo stato attuale delle conoscenze, la vitiligine è inserita nel gruppo delle malattie autoimmuni: la perdita di melanociti si accompagna, infatti, alla presenza nella cute di cellule coinvolte nelle reazioni immunitarie, i linfociti T, che sembrano giocare un ruolo nella distruzione delle cellule melanocitarie. Sebbene la maggior parte dei pazienti con vitiligine goda per il resto di buona salute, una frazione pari a circa il 10% presenta una concomitante condizione patologica immuno-mediata, come malattie tiroidee autoimmuni, anemia perniciosa, morbo di Addison, malattie infiammatorie intestinali. È probabile che la suscettibilità a sviluppare vitiligine dipenda da un tratto genetico complesso che può regolare l’autoimmunità, la biosintesi della melanina, e le risposte a stress ossidativo. La malattia è documentabile, in Italia, in circa 6 persone su 1.000. Si può quindi calcolare come, nel nostro Paese, vi siano circa 330.000 individui affetti. L’età di comparsa più frequente è attorno ai 20 anni, con inizio più precoce nel maschio e più tardivo nella femmina. La frequenza di malattia nei parenti di primo grado di una persona con vitiligine è più elevata rispetto alla popolazione generale. Si è visto però che, oltre alla genetica, nello scatenamento e mantenimento della malattia influiscono anche fattori ambientali, tra i quali sembrano avere un peso eventi stressanti o traumi fisici.

Tre forme, una malattia
Si distinguono classicamente tre varietà di vitiligine: una forma focale, una segmentale e una generalizzata. La forma focale è caratterizzata da poche chiazze isolate. La forma segmentale è caratterizzata da una lesione più spesso di forma allungata su un lato del corpo. Tale forma è stabile nel tempo e non ha tendenza alla progressione. Infine, la vitiligine generalizzata è la varietà più comune ed è caratterizzata da chiazze simmetriche al viso, specie alle regioni orbitarie, alla fronte, al mento e attorno alla bocca, nonché agli arti (vitiligine acro-faciale). La vitiligine universale è una forma particolarmente estesa di vitiligine generalizzata.

Il trattamento: dalla fototerapia ai farmaci…
Non è disponibile una cura definitiva per la vitiligine. Il trattamento ha come obiettivo attenuare il contrasto tra le chiazze ipopigmentate e la restante cute. In linea di principio, ciò può essere ottenuto sia incrementando il pigmento nelle chiazze ipopigmentate (ripigmentazione) sia riducendo la colorazione della restante cute (depigmentazione).

Il trattamento di riferimento per la ripigmentazione delle lesioni in aree cosiddette fotosensibili, cioè aree del viso e collo, è la fototerapia con luce ultravioletta B a banda stretta o con laser o lampada a eccimeri (la fonte di luce ultravioletta ottimale per il trattamento mirato). I migliori risultati si ottengono combinando la luce con immunosoppressori locali, idrocortisone o inibitori della calcineurina come tacrolimus o pimecrolimus. Utilizzando la fototerapia con ultravioletto B a banda stretta si richiedono cicli di trattamento molto lunghi superiori a sei mesi che prevedono almeno due sedute di esposizione settimanali. La fototerapia, specie se per aree limitate, può essere eseguita a domicilio (home phototherapy) utilizzando piccoli apparecchi acquistabili da aziende specializzate, sotto controllo medico. Sono comunque possibili e comuni le recidive. Il mascheramento delle lesioni con tecniche di trucco terapeutico (camouflage) rappresenta un valido aiuto. Nelle forme estese, si può valutare la depigmentazione delle aree residue. D’incerta utilità è la supplementazione con vitamine antiossidanti. Nelle forme rapidamente progressive si può considerare il trattamento intermittente con piccoli boli di steroidi sistemici per tre-quattro mesi.

… fino al trapianto di melanociti nei casi più “resistenti”
Per ottenere una risposta nei pazienti che non traggono beneficio dalla fototerapia combinata con immunosoppressori, sono state introdotte varie tecniche di trapianto di melanociti autologhi i cui risultati terapeutici sono assai variabili. Esistono due tipologie di trapianto, quella che prevede il trapianto di melanociti coltivati e quella che prevede il trapianto di melanociti non coltivati. La seconda tecnica è certamente più semplice e comporta il trasferimento di melanociti dal sito donatore a quello ricevente senza particolari interventi di manipolazione delle cellule in vitro. Una fonte di melanociti particolarmente vantaggiosa sembra essere il follicolo pilifero. Le tecniche di trapianto sono raramente impiegate in Italia e, nel caso del trasferimento di cellule coltivate, richiedono una vera e propria “cell factory” certificata. In conclusione, nel complesso, il trattamento della vitiligine è, ad oggi, piuttosto frustrante. Sarebbe auspicabile che venissero meglio definiti i criteri di gestione clinica e i centri di riferimento. Le informazioni sui protocolli di trattamento e sui risultati ottenuti sono molto frammentarie e andrebbero rese trasparenti. I pazienti meritano un maggior impegno in questo senso! 

Le chiazze di vitiligine possono comparire in ogni età, più frequentemente nella prima età adulta. L’andamento nel tempo è variabile. In genere, dopo una fase di progressione, la malattia si arresta e le macchie chiare persistono indefinitivamente

La diagnosi
È basata sul semplice esame clinico. Le lesioni vanno distinte da quelle di altre condizioni associate a chiazze chiare come la pitiriasi versicolor, malattia comune connessa con la crescita di un fungo, normale abitante della pelle, denominato Malassezia furfur, o la pitiriasi alba, frequente nei bambini e al viso, associata spesso a dermatite atopica. Per la diagnosi, risulta utile l’impiego di un esame sotto luce ultravioletta, esame alla lampada di Wood, che permette di identificare le chiazze di vitiligine in quanto emettono una caratteristica fluorescenza bianca.

I farmaci del futuro?
Tra i farmaci in sviluppo, va segnalato l’afamelanotide, un analogo sintetico dell’ormone stimolante il melanocita (α-MHS), che può essere somministrato per via sottocutanea utilizzando un impianto a rilascio controllato, proposto in associazione con fototerapia ma non disponibile per l’indicazione della vitiligine in Italia. Ancora, sono in fase di sperimentazione (non in Italia) alcuni farmaci con azione sulle risposte immunitarie come gli inibitori della Janus chinasi (JAK inibitori) tofacitinib e ruxolitinib.

A cura del dottor Luigi Naldi
Specialista in Dermatologia
Unità Complessa di Dermatologia, Ospedale San Bortolo, Vicenza e Centro Studi GISED, Bergamo