Riguarda in particolare chi lavora nelle cosiddette professioni di aiuto, come medici o infermieri. Ma anche avvocati e poliziotti, educatori e volontari. Tutte persone che quotidianamente si trovano a dover gestire problemi ed emozioni di persone in difficoltà. Può arrivare a riguardare, però, anche chi in diversi ambiti, è sottoposto a un costante stress lavorativo per diverse ragioni (carico eccessivo, poca gratificazione, relazioni difficili con i colleghi etc.). Parliamo della sindrome da burnout, disturbo in costante aumento, il cui nome può essere tradotto con “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”. Come riconoscerla prima che sia troppo tardi? E soprattutto come prevenirla? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Manuela Rossini.
Dottoressa Rossini, cosa si intende per sindrome burnout?
Si definisce burnout la condizione derivante dal processo di stress che colpisce le persone che esercitano principalmente (ma non solo) professioni d’aiuto. L’uso del termine burnout fa la sua comparsa intorno agli anni Settanta negli Stati Uniti, tra le persone che lavoravano nei servizi sociali e di cura. Lo psicologo Freudengerberger (1975) è stato il primo autore ad utilizzare questo termine e a scrivere del fenomeno, ma la sua popolarità è legata al nome di Cristina Maslach (1976). Il termine burnout viene tradotto letteralmente come “bruciato”, “scoppiato” o “andato in cortocircuito”. La scelta di questa parola deriva da una caratteristica specifica della sindrome: un esaurimento emotivo derivante dalle peculiarità delle mansioni lavorative svolte, oltre che dalla capacità di risposta funzionale o disfunzionale allo stress.
Quali sono i campanelli d’allarme?
La sindrome burnout può essere individuata e riconosciuta grazie ad alcune sensazioni tipiche dell’esperienza:
> esaurimento emotivo:
senso di impotenza, tensione, impazienza e demotivazione; l’operatore (ma anche la persona in generale) sente di non avere più nulla da offrire agli utenti e ai colleghi, come se avesse le batterie scariche;
> depersonalizzazione:
aspetto di distacco e distanziamento dalle persone in un primo tempo (depersonalizzazione) e dal lavoro successivamente (cinismo); è stata identificata come un meccanismo di difesa e di coping (cioè adattamento), un modo per proteggere sé stessi dall’intensa attivazione affettiva ed emozionale evocata dalla situazione lavorativa;
> senso di inefficacia personale:
perdita della fiducia in se stessi e nelle proprie capacità fino alla rinuncia delle proprie ambizioni e a una valutazione negativa dei propri comportamenti e azioni.
Quali sono le cause o i fattori di rischio che possono portare a questa condizione di esaurimento lavorativo?
Il burnout è il risultato di un’interazione tra la persona e il proprio contesto lavorativo. Di conseguenza, sia la personalità del singolo soggetto (fattori individuali) sia la struttura organizzativa (fattori organizzativi) possono condurre all’insorgenza del problema. Alcuni dei maggior esperti di questo problema (Maslach e Leiter, 1997) evidenziano l’importanza della struttura organizzativa sull’insorgenza del burnout e, in particolare, si concentrano sul grado di accordo (match) e disaccordo (mismatch) tra la persona e sei aspetti dell’ambiente di lavoro: più è elevato il grado di disaccordo, più è alta la probabilità che insorga il burnout; più è alto il grado di accordo, più è elevata la probabilità che si sviluppi engagement sul lavoro. Gli autori considerano i seguenti sei aspetti (fattori organizzativi) della vita lavorativa come possibili o probabili antecedenti al burnout:
> carico di lavoro, generato da una richiesta lavorativa elevata associata a una difficoltà di recupero delle energie;
> controllo, presenza di un controllo insufficiente sulle risorse necessarie al lavoro;
> riconoscimento, quanto le persone vedono ignorato e non apprezzato dagli altri il proprio lavoro;
> supporto, perdita della connessione con i colleghi, con i quali spesso sono presenti conflitti cronici e irrisolti;
> equità, mancanza di reciproco rispetto, di eque promozioni/avanzamenti di carriera, di una distribuzione equa del carico di lavoro e della retribuzione;
> valori, conflitto tra i valori del lavoratore e quelli dell’organizzazione.
Ci sono persone più vulnerabili di altre?
Secondo il ricercatore McCraine (Pellegrino, 2000), le persone più a rischio di burnout possono presentare alcune caratteristiche di personalità (fattori individuali) che le rendono più fragili e vulnerabili. Tra queste: bassa autostima, senso di inadeguatezza, disforia (disturbo dell’umore affine agli stati di depressione e di irritazione), preoccupazione ossessiva, passività, ansietà sociale, isolamento dagli altri. Altre caratteristiche che verosimilmente possono aumentare le probabilità di una condizione burnout possono essere un’eccessiva dedizione al lavoro, il perfezionismo, l’idealismo, una vita privata poco soddisfacente, l’autoritarismo, un forte bisogno di aiutare, un’eccessiva ambizione, l’impulsività, un’eccessiva introversione o estroversione (Pellegrino, 2000). La sindrome del burnout risulta inoltre essere correlata alla gestione quotidiana degli impulsi e delle emozioni, caratteristiche intrinseche di alcune professioni specifiche, in particolare le professioni di aiuto o helping professions. Tra queste si trovano tutte le professioni sanitarie, fra cui medici, psicologi, assistenti sociali, ma anche insegnanti, educatori etc. Il burnout può riguardare però anche ogni lavoratore che giornalmente si trova a dover gestire i problemi e le emozioni derivanti dalle persone in difficoltà come, per esempio, i poliziotti, i vigili del fuoco, i volontari, gli avvocati etc.. L’aspetto comune dei ruoli lavorativi sopra citati è il contatto diretto con le persone e, in particolare, con la sofferenza e il disagio. Ritrovarsi ogni giorno immersi in emozioni dolorose, può stressare, a livello emotivo. Se da un lato l’empatia risulta funzionale alle professioni di aiuto, dall’altro un’eccessiva vicinanza emotiva potrebbe portare allo scambio del proprio stato emotivo con quello altrui e probabilmente condurre al burnout.
Cosa succede quando una persona si esaurisce lavorativamente? Quali sono le conseguenze?
Le conseguenze della sindrome burnout si riflettono sia sulle persone che la vivono in prima persona sia sugli utenti con cui entrano in contatto, i colleghi e la famiglia. Per questo è necessario monitorare sia i fattori organizzativi sia individuali e intervenire tempestivamente per prevenire lo stress e, in particolare, la sua cronicizzazione.
Cosa si può fare per interrompere questo processo e prevenire così il burnout?
La prevenzione utilizza alcuni strumenti specifici tra cui la formazione sulla gestione dello stress, la gestione delle emozioni e degli impulsi in contesti lavorativi e lo sportello di ascolto dedicato. La formazione sulla gestione dello stress, emozioni e impulsi permette ai lavoratori, grazie al supporto di uno psicologo professionista in aula, di acquisire le informazioni di base su cosa è lo stress, riconoscere quali siano le cause e le possibili conseguenze, insieme all’apprendimento di tecniche per gestirlo efficacemente. Essere in grado di trasformare lo stress in fonte di energia e di stimolo (eustress) significa imparare a superare le difficoltà che si presentano, saper gestire in maniera ottimale le situazioni stressogene, raggiungere un alto grado di benessere organizzativo e probabilmente di work-life balance (cioè equilibrio lavoro-vita). Lo sportello di ascolto, come strumento di prevenzione e contenimento individuale, consiste invece in uno spazio di sostegno al lavoratore che vive un disagio all’interno dell’organizzazione, ma anche un disagio o un momento di difficoltà extralavorativo (qualunque essa sia) che tuttavia si ripercuote anche nella professione che svolge. L’obiettivo dello sportello di ascolto è arrivare a una maggiore consapevolezza rispetto alle proprie fonti di stress e all’acquisizione di strumenti per migliorare la propria capacità di resilienza (cioè di resistere a periodi di difficoltà “riorganizzandosi” e adattandosi) per fronteggiare le situazioni di disagio, prevenendo così condizioni estreme di cronicizzazione dello stress fino al burnout.
Dall’entusiasmo all’apatia: le quattro fasi dell’”esaurimento”
Se gli stressor (ovvero i fattori di stress) non vengono gestiti o contenuti tempestivamente, la probabilità di evolvere da un normale stress occasionale a una sindrome da burnout aumenta. Il processo che conduce alla cronicizzazione dello stress prevede quattro fasi:
1. Preparazione
è la fase dell’entusiasmo in cui si investono tutte le energie fisiche ed emotive; l’eccesso di investimento ed esaltazione diventano fattore di vulnerabilità nei confronti del burnout.
2. Svalutazione
anche chiamata “fase di stagnazione”, può essere raggiunta molto velocemente e si caratterizza per la dipendenza dalla quantità di lavoro quotidiano.
3. Frustrazione
dopo il carico eccessivo di lavoro, che comporta lo stress lavorativo, insorge la fase in cui ci si percepisce come incapaci o inutili, indipendentemente dal fatto che ciò sia vero o no, e ci si può sentire anche svalutati dall’esterno rispetto alle proprie potenzialità.
4. Apatia
va a sostituire l’empatia e la motivazione presenti in grandi quantità nella prima fase.
a cura di Viola Compostella
Con la collaborazione della dott.ssa Manuela Rossini
Psicologa del Lavoro
Dottore di ricerca in Psicologia Clinica presso Fortimed Italia
di Azzano San Paolo