La drammatica storia di Giordano Tomasoni vittima della depressione. «Buongiorno ragazzi, oggi vi parlerò di una malattia sottovalutata e presa troppe volte alla leggera: la depressione. Io ne so qualcosa, mi aveva distrutto, ho cercato di farla finita, di suicidarmi buttandomi giù da un ponte di Castione della Presolana, il mio paese. Sono sopravvissuto anche se ora non ho più l’uso delle gambe e sono costretto a stare su una sedia a rotelle. Ma ho ritrovato me stesso, ho reagito, ho scelto lo sport come strada maestra di questa seconda vita. E porto la mia testimonianza nelle scuole, negli oratori, nelle biblioteche, dovunque. Ho scritto anche libri sulla mia storia per sensibilizzare tutti su questa malattia che sorge all’improvviso senza una causa evidente e che spesso ti porta al suicidio. Nel mondo ogni anno si ammazzano 3 milioni di persone, una sessantina nella nostra provincia».

Così Giordano Tomasoni inizia il racconto della sua drammatica storia agli studenti. Tiene spesso conferenze in tutta la provincia e non solo. Arriva nelle scuole o nelle biblioteche guidando la sua auto e tralasciando per qualche ora il suo laboratorio dove fa sculture in legno. Con il legno ha cominciato da ragazzino lavorando nella falegnameria dello zio. Ma Giordano, che gli amici chiamano Giordy, è anche un campione di sci (ha partecipato alle Paralimpiadi del 2014 a Sochi in Russia) e di handibike (la bici speciale per gli atleti disabili sulla quale ha vinto due volte al Giro d’Italia, un campionato italiano e diverse Maratone). «Lo sport mi ha salvato» ci dice. «Ho cominciato da bambino. Vivendo in montagna, a Castione della Presolana, d’inverno facevo sci, d’estate andavo in bici. L’emozione d’indossare la divisa dell’Italia alle Paralimpiadi è stata grandissima. La handibike l’ho scoperta alla Casa degli Angeli a Mozzo dove sono stato ricoverato parecchi mesi per la riabilitazione. Un anno intero tra ospedale e recupero. Nel volo dal ponte della Presolana, quando ho tentato di mettere fine alla mia disperazione, mi sono fracassato gambe, caviglie, testa del femore, ho spaccato il bacino in due e due vertebre della spina dorsale sono esplose».

Da qualche anno Giordano ha iniziato la sua battaglia per aiutare chi soffre di depressione a liberarsi di quel peso, ha scritto dei libri per raccontare la sua storia (“Mi spinge la salita”, “ Essere può bastare”,” Bisogno di morire”). «Scrivere libri mi è servito» racconta. «È stata una ricerca introspettiva. Ho trovato il coraggio di raccontare ciò che mi è successo e che mi stava portando alla fine della vita. Spero che attraverso quello che ho scritto e gli incontri che faccio con studenti e adulti si riesca a vincere la depressione, una malattia che secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute nel 2020 sarà ai primi posti nelle graduatorie. E allora bisogna trovare un antidoto. La parola contraria alla depressione è vitalità, avere cioè voglia di vivere, di scoprire, di amare. Cose che io allora non avevo anche se ero un giovane contento della vita, avevo tutto, una casa, un buon lavoro, una famiglia felice con una moglie adorabile, una figlia Vittoria, un angelo biondo, e un’altra in arrivo, Alessia. Ma io mi sentivo solo, infelice, fragile. E mi chiudevo sempre di più in me stesso. Non ne parlavo neppure con mia moglie per non opprimerla con i miei problemi. Solo una volta mi sono confidato con un amico. La sua risposta è stata: ”Ma dai, tu sei fortunato, c’è chi sta male davvero, chi è malato, chi ha perso un figlio, chi il lavoro”. E da allora non ne ho parlato più con nessuno commettendo un gravissimo errore perché confidarti quando sei depresso ti può aiutare a superare le crisi».

Intanto sempre più depresso, nella mente di Giordano comincia a maturare un’idea drammatica. «Il suicidio. Potevo e volevo smettere di soffrire, avrei finalmente trovato la pace. E così una mattina del novembre del 2008 saluto mia moglie come tutti i giorni. Sono lucido, so già cosa fare. Con la macchina mi avvio verso il ponte della Valle dei Mulini di Castione della Presolana. Ormai ho deciso di farla finita. Mi affaccio dal ponte, guardo giù, controllo la zona, voglio essere sicuro di non salvarmi. E invece le mani mi tradiscono, non si staccano dal parapetto. Forse l’istinto di sopravvivenza. Resto così per un po’, poi finalmente perdo l’appoggio e precipito giù atterrando però con le gambe, non con la testa come avevo pensato io. Sono ancora vivo e sono cosciente, anche se sto male. Comincio a gridare, a chiedere aiuto. Fortunatamente passa un infermiere, mi sente e mi vede, scende, mi parla, chiama l’ambulanza».

«E finisco in Ospedale con una cinquantina di fratture. “Finalmente qualcuno si occuperà di me”, penso. Ma scopro che io stesso mi sto già occupando di me. Mi sento infatti liberato da tutto quel peso. E ricomincio a vivere anche se la diagnosi dei medici è impietosa: paraplegia. Sono destinato alla sedia a rotelle. In un attimo si chiude la porta sul prima e il dopo diventa un grosso punto interrogativo. Dalla depressione si guarisce, l’ho sperimentato in prima persona, mentre la disabilità è per sempre, ma non importa. La disabilità più grande l’ho provata quando ero depresso. Tutto ti opprime, la vita diventa una montagna da scalare. Ora però è solo un brutto ricordo. Ho ritrovato me stesso, la mia cara famiglia, lo sport. E ho scoperto che la felicità la si può trovare in ogni condizione ci si trovi. Lo sport mi ha insegnato tanto. Non si perde mai: o vinci o impari. E spero che anche i ragazzi delle scuole e i loro genitori o le persone che frequentano i mercatini dove vendo i miei lavoretti e racconto la mia storia capiscano che la depressione è una brutta belva e che bisogna parlarne il più possibile per salvare chi non ha più voglia di vivere».

a cura DI LUCIO BUONANNO

In questa rubrica pubblichiamo la storia di una persona che ha superato un incidente, un trauma, una malattia e con il suo racconto può dare speranza agli altri.
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