Non solo difficoltà di apprendimento, ma anche emozionali, comportamentali e relazionali. “Tutti i bambini possono imparare e tutti i bambini sono diversi fra loro”. A dirlo è il documento dell’UNESCO “Good Pedagogy-Inclusive Pedagogy” (2000). In altre parole: i bambini non imparano tutti nello stesso modo, ma esistono stili di apprendimento diversi, basati sulle caratteristiche di ciascuno. E la diversità può essere intesa come un punto di forza, anche quando si accompagni a difficoltà di apprendimento, relazionali, emotive.

 «Oggi non è affatto raro incontrare realtà di insegnamento assai complesse, contraddistinte da una significativa eterogeneità, che si traduce in una diversità che tutti gli insegnanti osservano nei processi di apprendimento, stili di pensiero, dinamiche di relazione e di attaccamento, vissuti familiari, sociali e culturali» dice la dottoressa Margaret Manzoni, neuropsicologa. «I profili degli alunni diventano così ricchi di sfumature psicologiche, relazionali, motivazionali, mentre le difficoltà d’apprendimento acquisiscono connotazioni ben più complesse, non riconducibili necessariamente alla presenza di un disturbo vero e proprio, bensì a motivazioni di più ampio respiro. Tra queste potremmo identificarne alcune, tra cui difficoltà emozionali (ansia, inibizione, collera, scarsa autostima e insicurezza), difficoltà comportamentali e relazionali (comportamenti aggressivi, bullismo, oppositività), difficoltà di origine familiare, socio-culturale o economica. È in questo contesto che si colloca il Bisogno Educativo Speciale (BES), ossia qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e/o apprenditivo che necessita di educazione individualizzata (Direttiva Ministeriale del 27/12/2012 e Circolare Ministeriale n.8 del 6/3/2013 ».

Ci può fare qualche esempio per capire meglio cosa si intende per BES?
All’interno di questa macrocategoria, oltre agli alunni con difficoltà di apprendimento dovute a disabilità e gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), rientrano alunni con altri BES, ossia con difficoltà di apprendimento imputabili a disagio e/o situazioni di svantaggio di altra natura (relazionali, emozionali, comportamentali etc.), non certificabili. Queste situazioni, profondamente diverse l’una dall’altra, non sempre, all’interno del contesto scolastico, trovano una risposta adeguata. A questo proposito la Circolare Ministeriale n.8 del 6 marzo 2013 ha stabilito che siano i docenti del Consiglio di classe a identificare gli alunni in difficoltà, con un BES, allo scopo di strutturare, per questi, un percorso di apprendimento più efficace e gratificante.

Come?
Attraverso l’adozione di una didattica efficace, ovvero un modo di fare scuola che tenga conto delle specificità dell’alunno, valorizzandone le potenzialità: viene, a tal fine, redatto dagli insegnanti un Piano Didattico Personalizzato (PDP), un documento contenente la rilevazione delle modalità di funzionamento dell’alunno, le strategie e gli accorgimenti da adottare (comprese eventuali misure compensative e dispensative) per far fronte alle difficoltà e impiegare al meglio risorse e potenzialità, nonché le modalità di insegnamento che la scuola dovrà adottare per garantire allo studente il conseguimento di un autentico successo formativo. Il PDP deve essere condiviso tanto con i genitori quanto con l’alunno stesso, poiché rappresenta l’effettiva realizzazione di un’alleanza tra studente, scuola e famiglia, condizione essenziale per garantire un apprendimento efficace e il benessere scolastico. Tuttavia, spesso i genitori faticano ad accettare le difficoltà dei propri figli. Questo può compromettere la cooperazione necessaria a operare in sinergia con la scuola, perseguendo obiettivi condivisi, e ostacolare così il processo formativo del bambino, portandolo a vivere la scuola come un luogo di costrizione, dolore e frustrazione, causati dal fallimento. Il primo passo, quindi, è che scuola e famiglia conoscano e, ancor prima, riconoscano le difficoltà del proprio alunno/bambino, così da poterlo poi supportare e motivare al meglio. È necessario saper adottare strategie educative conformi alle loro modalità di apprendimento e costruire un ambiente favorevole, mantenendo un clima di fiducia e valorizzando ciò che i bambini sanno fare, le loro abilità e i loro interessi, sia a scuola sia in contesti extrascolastici, poiché, a causa dei lunghi tempi impiegati per lo svolgimento dei compiti e per lo studio, si trovano troppo spesso a dover ridurre il tempo dedicato alle loro passioni.

A proposito di compiti, cosa possono fare i genitori per aiutarli nel modo più efficace?
Innanzitutto evitare un aiuto di tipo “assistenzialistico”, leggendo, scrivendo e sostituendosi al bambino nell’esecuzione di quanto richiesto. Un simile atteggiamento, indubbiamente mosso dalle migliori intenzioni, rafforza nei bambini la sfiducia nelle loro capacità e può indurli a rifiutare l’aiuto, a evitare il compito o, addirittura, alla dipendenza dall’adulto. L’obbiettivo è rendere il bambino autonomo e autoregolato, perciò l’adulto che lo affianca dovrebbe scegliere di lasciare che il bambino svolga l’esercizio da solo, per poi ripercorrere insieme a lui i passaggi che hanno portato a quel risultato, affinché possa accorgersi da solo dell’errore e ripetere l’esercizio correttamente. Inoltre condividere con il bambino i processi che hanno portato all’errore può aiutarlo a riflettere sul proprio modo di ragionare e a capire che anche l’errore costituisce un’occasione per imparare. Esistono, poi, alcuni accorgimenti pratici che si possono adottare a casa:

• definire il “momento dei compiti”, aiutando il bambino ad organizzare il pomeriggio, così che possa coltivare altri interessi (attività sportive, ad esempio);

• definire i tempi necessari per le diverse materie sulla base del carico di studio, così da creare un “calendario” temporale delle attività;

• avere chiaro quali materiali possano essere utili per lo svolgimento di una specifica materia (compresi gli strumenti compensativi), in modo tale da ottimizzare tempo a disposizione, risorse ed energie;

• organizzare i materiali da utilizzare (raccoglitori diversi per materia, etichette colorate, tabelle compensative etc.) al fine di assicurare un accesso rapido a ciò che serve per svolgere quel determinato compito;

• limitare le distrazioni, definendo preventivamente e con chiarezza le pause in cui concedersi uno svago per poter ritrovare la concentrazione.

PAROLE DA DIRE E … DA NON DIRE

“Dovresti ripassare questo concetto” oppure “Potresti fare degli esercizi aggiuntivi”.
Viene suggerita la necessità di un maggiore impegno, ma viene circoscritta la difficoltà e vengono suggerite strategie per meglio affrontare il compito.

“Fai con i tuoi tempi”
Se non c’è preoccupazione di “finire presto e bene”, si può capire dove sta l’errore e ripartire da lì, sostenendolo nello svolgere con successo il passaggio che un attimo prima falliva.

“Hai prestato attenzione, senza distrarti!” oppure “Hai svolto il compito correttamente!”
Si incoraggia il bambino, con frasi non riferite espressamente alle sue capacità ma al suo comportamento.

No

Ti devi impegnare di più!”
Potrebbe suggerire al bambino che ce la può fare, ma che si deve applicare maggiormente, trasmettendo senso di controllo sul proprio apprendimento. Un bambino con difficoltà, che nel frattempo ha maturato l’idea di non essere competente, però potrebbe pensare che solo impegnandosi tanto potrebbe compensare il problema.

“Facciamo una gara!”.
È molto probabile che un bambino con difficoltà abbia già sperimentato numerosi fallimenti, che spesso vengono vissuti in un contesto competitivo nel quale la valutazione si riferisce al raggiungimento di standard oggettivi generando un senso di impotenza e, di conseguenza, un atteggiamento arrendevole.

“Bravo/a!”
Bambini cui è sempre stato detto di essere bravi faticano ad accettare l’insuccesso e, alle prime difficoltà, tendono a evitare compiti in cui sentono di non essere all’altezza. Peggio se simili considerazioni vengono fatte a fronte di risultati non particolarmente brillanti, allo scopo di incoraggiare. Il bambino potrebbe pensare che, a causa delle sue difficoltà, non ci si aspetti granché da lui, portandolo così a sviluppare demotivazione, a evitare il compito e quindi all’insuccesso.

a cura di MARIA CASTELLANO

ha collaborato DOTT. SSA MARGARET MANZONI
Specialista in Neuropsicologia
- PRESSO LO STUDIO DI PSICOLOGIA RELAZIONALE DI MOZZO -