Tra loro anche cinque bergamaschi.
Per tanti anni sono stati definiti minorati, storpi, menomati, poi tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso handicappati che, spesso, i genitori preferivano nascondere tra le pareti domestiche per vergogna o per evitare commenti crudeli. Ora si chiamano persone con disabilità e non sono più reclusi. Anzi come hanno dimostrato le recenti Paralimpiadi di Tokyo questi ragazzi e ragazze con una gamba in meno o ciechi o in carrozzina hanno dimostrato di non essere assolutamente inferiori ai cosiddetti normodotati. Se il bresciano Jacobs ha vinto i 100 metri e la staffetta alle Olimpiadi di Tokyo, Ambra Sabatini, Martina Caironi, Monica Contraffatto, ognuna di loro senza una gamba, hanno battuto tutti i record classificandosi prima, seconda e terza alle Paralimpiadi sulla stessa distanza e sulla stessa pista di Jacobs. E allora? Possiamo ancora dire che si tratta di handicappati o, peggio, menomati come li chiamavano una volta? No! Sono atleti che si allenano per ore con tanti sacrifici e vanno nelle scuole a raccontare la loro storia e la loro disavventura e a convincere i ragazzi con problemi fisici e mentali a non abbattersi, a scoprire lo sport. “Le attività rivolte al mondo della scuola, universo nel quale quotidianamente i giovani formano la loro personalità e costruiscono il sistema dei valori, occupano un posto di primo piano nella definizione delle politiche del CIP, volte a promuovere, su tutto il territorio nazionale, la massima diffusione della cultura paralimpica e l’avvicinamento alla pratica sportiva di un numero sempre più elevato di giovani con disabilità” scrive sul suo sito il Comitato Italiano Paralimpici. “Per compiere la sua mission, il Comitato Italiano Paralimpico ha avviato, già a partire dal quadriennio 2013-2016, una stretta collaborazione con il MIUR, rafforzata a seguito del riconoscimento del CIP quale ente autonomo con personalità giuridica di diritto pubblico, che ha contribuito a far crescere la partecipazione dei ragazzi con disabilità su progetti e iniziative a livello territoriale e nazionale indirizzati alle Istituzioni Scolastiche, in piena condivisione con il mondo sportivo olimpico. Si avvale, inoltre, del contributo della Commissione Nazionale Scuola, istituita dalla Giunta Nazionale e composta da esperti del mondo sportivo e scolastico. Suo il compito di supportare la pianificazione e lo sviluppo delle attività del CIP rivolte alla Scuola ed alle Università. Per attuare e promuovere sempre più concretamente la cultura dell’inclusione nel segno dello sport, il CIP incentiva lo svolgimento di attività di divulgazione della cultura paralimpica e di orientamento ed avviamento allo sport paralimpico di alunni e studenti frequentanti gli istituti di istruzione primaria e secondaria, attraverso percorsi condivisi con i singoli istituti scolastici che, nel quadro delle autonomie scolastiche e tenendo conto dello specifico contesto di riferimento, siano interessati a collaborare per arricchire la crescita culturale e la formazione dei propri iscritti attraverso progetti che favoriscano la piena inclusione e l’ampliamento delle opportunità di apprendimento e sviluppo della personalità tramite l’attività paralimpica”. E i cinque atleti che rappresentavano l’Italia e Bergamo alle Paralimpiadi di Tokyo sono stati all’altezza dei loro competitor. Ma vediamo chi sono i nostri eroi orobici… 

MARTINA CAIRONI
BISOGNA SEMPRE REAGIRE COME HO FATTO IO
È l’atleta paralimpica più famosa e veloce nei 100 metri: medaglia d’oro a Londra e a Rio, mondiali e record sulla distanza e nel salto in lungo. Ma a Tokio si è dovuta accontentare di due argenti battuta dalla sua allieva. Martina Caironi, 32 anni, di Borgo Palazzo, ha reagito alla sua maniera: ha mimato in diretta televisiva mondiale l’incoronazione della sua compagna di stanza Ambra Sabatini anche lei senza una gamba perduta in un incidente stradale. A Tokyo lei, Ambra e Monica Contraffatto hanno fatto il vuoto classificandosi ai primi tre posti, un risultato eccezionale nella storia dell’atletica. Ambra, che ha perduto una gamba in un incidente stradale, e Monica, caporal maggiore, ferita in Afghanistan mentre era militare, hanno deciso di dedicarsi alla corsa veloce vedendo in tv dal loro letto d‘ospedale proprio Martina vincere gli ori ai mondiali e alle Paralimpiadi. Tra loro è nata una forte amicizia senza gelosie tanto che la campionessa bergamasca ha così commentato la vittoria della Sabatini: «Ambra a 19 anni ha fatto quel che io ho fatto in una carriera, ma non mi brucia, è il riconoscimento di tante battaglie portate avanti. Adesso c’è attenzione al nostro mondo, anche mediatica. Sono stati introdotti i premi in denaro, abbiamo medici, fisioterapisti, infermieri, alcuni di noi sono aiutati anche dagli sponsor. E sono solo esempi. Conta più del fatto che qualcuno mi possa battere. Lo sport in fondo è competitività e permette di migliorarti ogni giorno». E già pensa ai prossimi Giochi che si terranno a Parigi nel 2024 e all’impegno nel Comitato Paralimpico Internazionale dove è stata eletta con un suffragio quasi universale dagli altri atleti di scena a Tokyo. «Ma sono anche portavoce dei diritti femminili», ha scritto sul Vatican News. «Alle donne voglio mandare un messaggio, a loro voglio dire di non chiudersi e di uscire perché fuori ci possono essere tanti aiuti. Io sono una donna con disabilità e guardatemi bene, vi sembro debole? No, non lo sono! Io sono il segno che bisogna sempre reagire». Esattamente come ha fatto lei, che, dopo l’incidente sulla Vespa guidata dal fratello e l’amputazione della gamba sinistra, reagisce e scopre l’atletica. E diventa la campionessa che conosciamo non soltanto nello sport, ma nella vita quotidiana. Guida l’auto, va a ballare, va nelle scuole a raccontare la sua storia e si interessa dei più sfortunati. Intanto è apparsa anche al Festival del Cinema di Venezia: ha dato il suo volto al cortometraggio “Ripartenza: l’Italia unita contro il Covid 19”. «Durante il lockdown, dopo essere stati chiusi in casa» commenta «ci siamo accorti di quanto sia importante lo sport come valvola di sfogo». 

ONEY TAPIA
CON L’IMPEGNO TUTTO È POSSIBILE
«Nella vita tutto è possibile, se ci si mette l’impegno i risultati arrivano». Così Oney Tapia, bergamasco di origine cubana, ha commentato le sue due medaglie di bronzo nel peso e nel disco alle Paralimpiadi di Tokyo. Lo chiamano il guerriero, un soprannome che gli calza a pennello visto le difficoltà della sua vita che ha dovuto affrontare e superare. Arriva in Italia vent’anni fa per giocare come lanciatore nella squadra di baseball di Lodi. È bravo, alto quasi un metro e 90 per 100 chili di peso. Si mette subito in luce e passa nel Montorio Veronese, successivamente inizia a giocare a rugby e per mantenersi fa il giardiniere. Non si lamenta mai. È un tipo riservato tanto che tiene segreto anche i nomi della moglie e delle tre figlie. Ma il destino è in agguato, mentre lavora un grosso tronco lo colpisce in volto, la sentenza dei medici è terribile: cecità. Ma da buon guerriero non si arrende e lui che è uno sportivo nato inizia un nuovo percorso con l’atletica leggera paralitica con l’Omero Runners Bergamo. Va ad abitare a Sotto il Monte, il paese natio di Papa Giovanni. «Un giorno mi chiesero di andare a fare una gara a Siracusa» ha raccontato il guerriero «presi il disco in mano, lo lanciai e feci il record italiano. Uno dopo l’altro superavo tutti i record. La vita mi si è stravolta, stravolta nel senso positivo del termine». Un primato che durava da 14 anni. Nel 2016 vince la medaglia d’oro agli Europei, un argento alle Paralimpiadi di Rio, poi ancora oro nel peso e nel disco agli Europei di Berlino e un argento ai Mondiali di Dubai e ora questi due bronzi a Tokyo. Ma il guerriero trova anche il tempo tra un lancio del disco e un getto del peso, di partecipare nel 2017 a “Ballando con le stelle” in coppia con Veera Kinnunen e anche lì è un trionfo. E “Più forte del buio” . “Niente può fermare i miei sogni” che è il titolo della sua autobiografia. Diventa anche ambasciatore dello Sport Paralimpico. «Io questo ruolo di Ambasciatore» confida il guerriero «lo vivo con serenità e consapevolezza. Poter condividere la mia esperienza con tutte le persone è una bella cosa perché quando hai un incidente ti puoi buttare giù oppure trasformarlo in un’opportunità per te stesso e diventare uno stimolo per altri. Cerco così di sensibilizzare le persone. Ma girando per l’Italia ho capito che ai nostri ragazzi bisogna dare un’istruzione precisa, corretta. Hanno bisogno di punti di riferimento perché spesso sono fragili e questo mi costringe a dare il massimo impegno per portare un messaggio positivo». Un impegno premiato anche con la nomina a “Ufficiale Ordine al merito della Repubblica Italiana”. 

GIULIA TERZI
LO SPORT TI CAMBIA LA VITA
Lei, Giulia Terzi di Arzago d’Adda, e il suo fidanzato Stefano Raimondi, veronese di Soave, hanno sbancato le Paralimpiadi di nuoto a Tokyo portandosi a casa dodici medaglie. Lei cinque (due d’oro nei 100 stile libero e nella staffetta 4x100 femminile, due d’argento nei 400 stile e nella staffetta mista, una di bronzo nei 50 farfalla), lui ben sette (una d’oro, quattro d’argento e due di bronzo). Due ragazzi che con la forza di volontà e l’affetto della famiglia sono riusciti a superare ogni ostacolo diventando la regina e il re del nuoto. Giulia Terzi ha scoperto la piscina e il nuoto grazie alla mamma Stefania ex nuotatrice. Classe 1995, la campionessa, tesserata con la PolHa Varese e il Gruppo Sportivo Fiamme azzurre, è cresciuta con una scoliosi congenita, rara, con coinvolgimento midollare e deficit di forza alle gambe, soprattutto, e alle braccia, che però non ha impedito a Giulia di affrontare una carriera agonistica nel nuoto. In vasca entra all’età di 5 mesi, ma la sua passione è la ginnastica artistica. Nel 2018 su consiglio del medico e dopo l’ultimo di 3 interventi chirurgici, torna in acqua definitivamente perché non può più alzare pesi. Ed è costretta su una carrozzina. Il suo impegno viene ripagato con 3 medaglie ai Mondiali di Londra 2019 nei quali esordisce nella nazionale di nuoto paralimpica. Ama la lettura, specialmente i gialli, la musica e gli animali, in particolare i suoi cagnoloni, come li definisce, (Maya, Astrid e Giusi) e il coniglietto Gomez arrivato ai tempi della Papu Dance. Dopo i mondiali di Londra agli assoluti italiani di Palermo conquista due ori, due argenti e un bronzo. Poi, ai recenti campionati europei del 2021 che si sono svolti a Funchal, in Portogallo, ha vinto cinque medaglie d’oro e un bronzo, registrando anche il record europeo nei 200 metri misti SM7, con il tempo di 3’08”82: ben 4 secondi e 7 decimi più veloce del precedente primato. E a Tokio, alla sua prima Paralimpiade, ha strabiliato tutti sempre serena, sorridente, disponibile, come nella vita. Al ritorno dal Giappone ha discusso, dopo quella in Scienze politiche, la seconda laurea, in Giurisprudenza, sulle tutele legali in Italia e negli Stati Uniti per gli atleti paralimpici . Ma il suo pensiero va ai ragazzi. «Spero che la mia storia insegni ai bambini a uscire dalle paure e provare a fare sport perché ti può cambiare la vita». E lei va nelle scuole a raccontare la sua storia e la volontà di non abbattersi. Come il fidanzato che ha perduto una gamba in un incidente con lo scooter e va nelle scolaresche a parlare della sua esperienza nel nuoto e sulla sua disabilità. E della forza di volontà che può portare alle medaglie d’oro e comunque a vivere senza sentirsi diverso. 

MATTEO BONACINA E GIAMPAOLO CANCELLI
I ROBIN HOOD IN SEDIA A ROTELLE
La speranza di una medaglia era tanta, ma purtroppo si è infranta ai sedicesimi della finale di tiro con l’arco. Matteo Bonacina e Giampaolo Cancelli, i Robin Hood bergamaschi sulla sedia a rotelle non ce l’hanno fatta: sono stati eliminati alle Paralimpiadi, ma loro non se la sono presa più di tanto. È stata infatti un’altra esperienza emozionante dopo quella di Rio per entrambi e quella di Londra per Cancelli. Ci proveranno ancora a Parigi nel 2024. Due storie che hanno in comune la sedia a rotelle. Matteo, originario di Valbrembo, racconta: «Lavoravo come giardiniere. Stavamo scaricando le piante da un camion, ognuna con la sua zolla di terra. Bisognava sollevarle con la gru e poi appoggiarle al suolo. A volte capita che durante questa operazione si spostino, si sbilancino. Quella volta, però il tronco si è proprio spezzato e così una parte mi è caduta addosso, con le radici e la terra. Mi sono ritrovato con un polmone schiacciato, la tibia e alcune vertebre fratturate». In ospedale subisce una serie di operazioni, Va al centro di riabilitazione di Mozzo, ma è destinato alla carrozzina. «I medici mi hanno incoraggiato a provare diverse discipline, sottolineando i vantaggi per la salute: aumentano la muscolatura e l’equilibrio e permettono di recuperare anche abilità motorie che altrimenti resterebbero “addormentate”. Ci tenevo a recuperare il più possibile perciò ho provato un po’ di tutto, dal basket in sedia a rotelle al tennis, dalla scherma al ciclismo, dallo sci al nuoto e al ping pong. Niente però mi ha affascinato come il tiro con l’arco, che prima non avevo mai provato. Un’esperienza bellissima. E scopri che per ottenere i risultati migliori bisogna essere capaci di staccarsi da tutto e mettere a fuoco il bersaglio. È semplice ma anche complesso, a volte ripetendo esattamente gli stessi gesti si ottengono risultati molto diversi. Conta molto l’attenzione, ed è proprio questo che mi attrae. Questo sport spinge a lavorare su se stessi, non solo sul piano fisico, ma anche mentale». Anche Giampaolo, per tutti Paolo, di Stezzano ha scoperto il tiro con l’arco al centro di riabilitazione di Mozzo dopo un terribile incidente stradale a 300 metri da casa. E anche lui si è appassionato. «Dopo un mese e mezzo di allenamento sono stato selezionato per le Paralimpiadi di Londra poi per i mondiali per tante altre gare internazionali e per Rio e poi per Tokio”. Tre Paralimpiadi ma tante amicizie. Con tanti atleti con disabilità che non si sentono rivali, ma siamo come una grande famiglia».

A cura di Lucio Buonanno