«La gestione delle emozioni è un affare complicato per tutti, figuriamoci per i bambini! Una delle più complicate è la rabbia: spesso scambiata per capriccio, la richiesta che solitamente viene fatta ai bambini è quella di non esprimerla, di non arrabbiarsi. Ma la rabbia di per sé non è patologica semplicemente a volte è difficile da gestire e per questo spaventa i genitori». Chi parla è Laura Grigis, psicologia e psicoterapeuta. L’abbiamo incontrata per capire in che modo questo sentimento possa essere tenuto sotto controllo e quando è il caso di preoccuparsi perché diventa dannoso per il bambino e chi gli sta intorno.
Dottoressa Grigis, che il bambino in certe situazioni manifesti rabbia può essere normale?
Certamente sì. La rabbia è un’emozione primordiale, di base, determinata dall’istinto di difendersi per sopravvivere nell’ambiente in cui ci si trova, che si sperimenta quando leggiamo l’evento che ci accade come un’ingiustizia o un sopruso. La sua funzione è definire i confini di ciò che ci sta bene e di ciò che invece non vogliamo, funziona da campanello d’allarme per farci sentire che qualcuno sta minacciando i nostri diritti, che qualcuno non rispetta delle regole per noi fondamentali, che un nostro desiderio o una nostra necessità non sono soddisfatte. È quindi normalissimo che un bambino si arrabbi mentre si relaziona con un coetaneo, per un dispetto subito, quando viene costretto a riordinare la cameretta o a mangiare il passato di verdure. Come tutte le altre emozioni, anche la rabbia ha una sua funzione adattiva e sarebbe controproducente (oltre che impossibile) pensare di eliminarla.
A volte però può diventare patologica...
Quando non è gestibile, non è modulabile e quando risulta essere l’unica modalità espressiva del bambino. Sembrano essere in aumento, negli ultimi anni, i bambini che mostrano difficoltà nel relazionarsi in modo sereno con i coetanei, agendo spesso con rabbia, aggressività e sprezzo delle regole e delle autorità. Si tratta di bambini che presentano i cosiddetti disturbi esternalizzanti: con questo termine s’intende un insieme di comportamenti problematici, che portano a dirigere verso l’esterno, sotto forma di oppositività, impulsività, iperattività, aggressività e rabbia, le proprie emozioni critiche. I bambini con disturbi esternalizzanti mettono a dura prova tutte le persone con le quali entrano in contatto: i genitori, gli insegnanti, i compagni di gioco e di scuola.
Qual è invece l’impatto sul bambino stesso e sulla sua crescita?
La qualità della vita e il benessere psicologico del bambino con disturbi esternalizzanti sono ovviamente a rischio: i diversi ambiti della sua quotidianità (scuola, sport, amicizie…) gli rimandano un’immagine di sé come “il cattivo”, “il guastafeste”, “quello che picchia”. Queste etichette, in una sorta di profezia che si autoavvera, rischiano ben presto di diventare delle definizioni stabili e permanenti che il bambino ha di sé: in questo modo a lui non resterà altro da fare che comportarsi come tutti si aspettano da lui. A questi bambini spesso vengono diagnosticati disturbi da comportamento dirompente, come l’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività), il Disturbo oppositivo-provocatorio o il Disturbo della condotta, definiti come life course persistent ovvero come disturbi relativamente stabili nel corso della vita.
Cosa si può fare per evitare tutto questo?
In un’ottica preventiva, è fondamentale che genitori, familiari, scuola etc. siano in grado di proporre anche un percorso di educazione alle emozioni, per fornire fin da piccoli un bagaglio di competenze e conoscenze fondamentali per lo sviluppo dell’Intelligenza Emotiva (D. Goleman 1995). In un’ottica di prevenzione secondaria, cioè d’intervento in situazioni che già presentano delle componenti problematiche, invece, è stato sviluppato in America (J.E. Lochman e coll. 2002) e introdotto in Italia (A. Milone 2014) il Coping Power Program, uno dei pochi programmi con caratteristiche di complessità e di provata efficacia nel trattamento del comportamento dirompente in età scolare. L’intervento multimodale che lo caratterizza parte da un semplice presupposto: non esiste un’unica causa che spiega il comportamento aggressivo e dirompente del bambino, ma numerose e diverse variabili, come la predisposizione biologica e temperamentale o le esperienze ambientali e relazionali, che portano i bambini con problemi di aggressività a sviluppare una modalità distorta e deficitaria di elaborazione dell’informazione sociale: tendono a valutare i segnali sociali provenienti dagli altri in maniera ostile, reagendo in modo aggressivo. Inoltre presentano difficoltà relativamente al problem solving: riescono a formulare poche alternative di soluzione a un problema e la principale soluzione per loro è spesso l’aggressività. È proprio a partire da questi molteplici fattori e caratteristiche che è stato sviluppato e sperimentato il Coping Power Program che prevede un intervento di gruppo (o individuale) per i bambini e in parallelo un percorso di parent training per i genitori. Il percorso dedicato ai bambini, che dura all’incirca un anno, è incentrato sull’apprendimento di competenze legate al riconoscimento dei segnali fisiologici della rabbia e del punto di vista altrui, alla valutazione di soluzioni alternative per la gestione di conflitti e al potenziamento di abilità interpersonali e sociali. Per quanto riguarda invece il percorso parallelo con i genitori, il confronto con il gruppo permette di condividere e sperimentare soluzioni relazionali ed educative più funzionali, acquisendo nuove abilità nella gestione dei problemi del figlio e dei propri vissuti emotivi: fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo, per questo è utile a volte fermarsi a riflettere e provare a mettere in pratica alcuni consigli (vedi box). Spesso il cronicizzarsi delle problematiche di aggressività è uno dei principali fattori di rischio per la devianza in età adolescenziale (abuso di stupefacenti e alcol, condotte criminali, ingresso in gruppi devianti). Per questo motivo l’intervento precoce è importante; anche i cosiddetti “bambini difficili” (e i loro genitori) hanno la possibilità di vivere relazioni sociali funzionali, serene e soddisfacenti, imparando e sperimentando nuove abilità sociali, in un ambiente supportivo e non giudicante.
Premi e punizioni: istruzioni per l’uso
Il potere delle lodi
> Quando siete orgogliosi di vostro figlio, diteglielo!
> Ringraziatelo ogni volta che vi fa un favore.
> Ringraziatelo ogni volta che fa un bel gesto verso qualcuno.
> Ditegli “bravo!” ogni volta che fa qualcosa con un buon risultato.
> Ditegli quanto apprezzate che lui stia provando a fare qualcosa di buono (anche se non riesce a portarlo a termine al 100%).
No alle punizioni fisiche
> Non sono efficaci, non funzionano.
> Non sono un’esperienza positiva di apprendimento per il bambino.
> Creano distanza emotiva.
> Non insegnano comportamenti positivi per le relazioni sociali.
> Portano all’imitazione, a mettere in atto comportamenti aggressivi con gli altri.
> Hanno un effetto negativo sull’autostima del bambino.
> Si rischia di perdere il controllo e di fare realmente del male al bambino.
Le punizioni (mai fisiche) funzionano se vengono utilizzate in parallelo alle gratificazioni, ai premi, per i comportamenti positivi. In questo modo il bambino non avrà bisogno di provocare o trasgredire per ottenere la tua attenzione, perché l’avrà ogni volta che fa qualcosa di positivo.
a cura DI ELENA BUONANNO
con la collaborazione della DOTT.SSA LAURA GRIGIS
Psicologa e Psicoterapeuta
A Bergamo