Diego Manzoni, 46 anni, anestesista rianimatore di Bagnatica, è un medico in prima linea e lo racconta nel libro “Salam aleikum”.

La comodità di una carriera ospedaliera “classica” non faceva per lui. Anima irrequieta, di quelle che hanno bisogno di cambiare aria per andare a cercare quello che fa stare bene, ha vissuto la sua professione di medico – anestesista rianimatore – come una sorta di missione. Ha portato le sue competenze negli angoli del mondo dove ce n’era più bisogno, spesso al fronte in zone di guerra, spinto dalla volontà di aiutare gli altri e dal desiderio di soddisfare una curiosità innata. Diego Manzoni, 46 anni, originario di Bagnatica, ha raccolto ora le sue esperienze nel libro “Salam aleikum. Un medico al fronte racconta la sua guerra”.

Una vocazione nata in tenera età, la sua…

Sì, cominciata con la voglia di esplorare. Prima attraverso semplici viaggi, all’avventura, poi unendo la componente della cooperazione internazionale, del volontariato e della professione medica, al servizio di progetti umanitari ben definiti. Ho spaziato da contesti di povertà e carenza di risorse a situazioni di conflitto e violenza, andando sempre a scoprire le varie modalità in cui le persone possono vivere.

Come è nata Health-Aid onlus, da lei fondata nel 2001quando era ancora uno studente?

Ero in Ghana per uno scambio universitario. Ho incontrato questo ragazzo del posto, studente anch’egli di medicina, e da questa amicizia è nato il progetto, che ha preso spunto dal suo desiderio di fare qualcosa per la comunità da cui veniva, estremamente arretrata e bisognosa. Il progetto consisteva essenzialmente in promozione della salute e prevenzione dalle malattie più comuni, a livello informativo. In seguito si è sviluppata la parte sanitaria con competenze più specifiche in ambito medico: abbiamo aperto l’ambulatorio per le visite, con una particolare attenzione per le donne incinte.

Parliamo della guerra: l’uomo è così irrimediabilmente autolesionista da dover per forza rincorrere ad armi, morte e distruzione?

Mi sono fatto questa idea: l’uomo che di solito dà il via al conflitto è essenzialmente bisognoso, gli manca qualcosa, non è felice. Insoddisfatto e rabbioso. Questa mancanza viene espressa prevaricando l’altro. La gente felice e soddisfatta non ha bisogno di fare la guerra. Tutto nasce insomma da un problema dell’uomo che non sa gestire la sua frustrazione.

Avrà conosciuto persone di ogni genere. Quale incontro le è rimasto più impresso?

Non ne citerei uno in particolare, perché sono le persone semplici e umili quelle che mi hanno insegnato di più, inaspettatamente. Fermo restando che tutti quelli con cui ho lavorato e interagito mi hanno dato qualcosa.

Come è stato operare come medico in contesti in cui medicine, materiali sanitari e tecnologie normalmente reperibili in un ospedale non ci sono?

Nel libro c’è un racconto in particolare in cui riusciamo a curare una persona con la cera fusa delle candele comprate al mercato. Questo è un esempio significativo di come, in assenza di risorse e tecnologia, bisogna inventarsi qualcosa. È il bello di questo lavoro: si devono talvolta trovare soluzioni a problemi che sembrano irrisolvibili o quasi impossibili da risolvere. Fondamentale è anche il confronto con gli altri, all’interno della squadra di lavoro, perché permette di elaborare delle modalità operative che magari un singolo non riuscirebbe a concepire.

Qual è stato il momento più difficile che ha vissuto in tutti questi anni?

Quando c’è una guerra in corso e si è al fronte, o comunque molto vicino, le esplosioni e i colpi di arma da fuoco fanno sempre molta paura. Oltre all’Afghanistan, dove queste cose succedevano spesso, ricordo con terrore un bombardamento notturno nello Yemen, a due chilometri da noi: la sensazione era quella di essere in trappola.

La paura, quindi, fa parte del suo mestiere.

Assolutamente sì. Parto e torno con la paura. Ma ho imparato a gestirla. Il coraggio è stare lì quando c’è, la paura. Salvare vite è talmente gratificante che ti fa superare anche quella.

A cosa sta lavorando attualmente?

Il progetto in Ghana va sempre avanti: ce l’ho a cuore e ci lavoro costantemente. Ora però sono tornato in Italia dopo una missione per conto del Governo australiano a Nauru, in Micronesia, per stare un po’ qui. 

Un momento di pausa, insomma.

Sì, anche se qui continuo a lavorare come anestesista, negli ospedali bergamaschi. Fino alla prossima partenza. 

a cura di Claudio Gualdi

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