Tra moglie e marito non mettere il dito”, il proverbio, famosissimo, invita a non immischiarsi se marito e moglie discutono, se litigano, se bisticciano. E invece il Covid si è messo di mezzo, mettendo a dura prova la tenuta delle coppie e delle famiglie con risultati sconvolgenti. Tanti coniugi hanno preferito separarsi. L’anno scorso le separazioni sono addirittura aumentate del 60 per cento rispetto al 2019. Nella Bergamasca quasi duemila. La causa principale? «La convivenza forzata» spiega l’avvocato Matteo Santini, presidente dell’Associazione Nazionale Avvocati Divorzisti e direttore del Centro studi ricerche diritto alla famiglia e minori.

«Un conto è condividere i week end e le sere con il partner, un altro è vivere insieme l’intera giornata con tutti i problemi relativi all’emergenza sanitaria, stress per la malattia, mancanza di lavoro, convivenza con i figli con le difficoltà connesse alla didattica a distanza. Tutto ciò comporta un’esplosione emotiva che porta al desiderio di allontanamento e alla richiesta di separazione». Ma non è solo questa la causa dei divorzi. Molte coppie, almeno il 40 per cento, si sono sfaldate perché con il lockdown è stato più difficile nascondere le doppie vite che i coniugi infedeli conducevano prima della chiusura per covid. Altre per violenze all’interno della famiglia che hanno visto un aumento del 70 per cento. Numeri che parlano da soli come l’aumento del 20 per cento dei femminicidi. La pandemia e le restrizioni che, qualcuno ha paragonato agli arresti domiciliari, hanno inciso anche sulla prospettiva di avere figli e costruirsi una famiglia. Dal Rapporto “L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizione delle nuove generazioni”, promosso dal Dipartimento per le politiche della famiglia in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti emerge che la demografia è uno dei principali ambiti colpiti dalla pandemia, sia per l’effetto diretto sull’aumento della mortalità, sia per le conseguenze indirette sui progetti di vita delle persone.

La situazione del nostro Paese risultava su questo fronte già da molto tempo particolarmente fragile e problematica. Il maggior invecchiamento della popolazione ci ha resi maggiormente esposti alla letalità del virus. I fragili percorsi formativi e professionali dei giovani in Italia (soprattutto se provenienti da famiglie con medio-basso status sociale), i limiti della conciliazione tra vita e lavoro (soprattutto sul lato femminile), l’alta incidenza della povertà per le famiglie con figli (soprattutto oltre il secondo), con il contraccolpo della crisi sanitaria rischiano di indebolire ancor di più la scelta di formare una propria famiglia o di avere un (altro) figlio, e anche l’aumentato del senso di incertezza va in tale direzione. Il rapporto evidenzia in particolare la rilevanza, per le ricadute sulla scelta di avere un (altro) figlio, dei dati sull’occupazione, sulle prospettive di stabilità dei percorsi professionali e sulle possibilità di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. «Nel secondo trimestre 2020 il tasso di occupazione femminile risulta infatti sceso al 48,4%, consolidando la distanza rispetto alla media europea ma anche accentuando il divario di genere nel nostro Paese (la distanza rispetto all’occupazione maschile è salita da 17,6 punti percentuali dello stesso trimestre del 2019 a 18,2)» si legge nel Rapporto. «Si allarga anche il divario tra le generazioni. Sempre prendendo a confronto il secondo trimestre 2020 rispetto all’anno precedente, si osserva una riduzione del tasso di occupazione pari a -0,8 punti percentuali in età 50-64 anni, di -1,6 nella fascia 35-49, di -3,5 in quella 25-34 anni (-3,2 in quella più ampia 15-34). A essere più colpita risulta quindi essere la classe che già risultava con più ampio divario rispetto alla media europea, ma anche quella più delicata per la costruzione dei progetti di vita». La pandemia e le restrizioni per combattere Covid-19 hanno rivoluzionato anche il ruolo dei padri, coinvolgendoli nella cura della casa e dei figli e trasformandoli a volte in “mammi”. Ma nello stesso tempo sono cresciute anche preoccupazioni, ansia e irritabilità. Come sostiene un sondaggio promosso dall’EURODAP (Associazione Europea per il Disturbo da Attacchi di Panico): per il 76 per cento degli intervistati l’immersione nella quotidianità familiare e il cambiamento radicale delle abitudini ha causato una pressione psicologica non trascurabile. Il 59 per cento, infatti, dichiara di essere molto preoccupato per la situazione economica attuale e il 68 per l’impossibilità di progettazione legata all’andamento della pandemia. Il lockdown e la mancanza di contatti sociali in alcuni casi hanno portato a uno stato di agitazione e depressione, difficoltà di concentrazione e maggiore irritabilità: il 57 per cento prova un senso di frustrazione per l’impossibilità di ritagliarsi uno spazio personale se non in casa o di mantenersi il lavoro.

«È passato un anno da quando il mondo è stato travolto dalla pandemia, costringendoci ad abbandonare la nostra routine per rintanarci nella sicurezza delle nostre case» afferma Eleonora Iacobelli, psicoterapeuta e presidente EURODAP. «È stato un periodo d’incertezze, di precarietà mentale e lavorativa, ma anche di riscoperta dei valori familiari. La convivenza forzata ha costretto le famiglie a cercare nuovi equilibri e i papà in smart-working si sono ritrovati alle prese con nuove dinamiche lavorative e familiari, più presenti e coinvolti nella cura della casa e dei figli e nella loro istruzione. Il prolungarsi di questa situazione, però accresce ansia, stanchezza e paura». E separazioni e divorzi. E così dopo qualche mese di quieto vivere dove la casa era diventata l’unico luogo sicuro contro la pandemia, con gli uomini che cucinavano, facevano il pane, ritinteggiavano le pareti e inventavano giochi per figli e le donne avevano riscoperto antichi lavori come l’uncinetto e il lavoro a maglia, sono però cominciate le incomprensioni, i litigi e a volte le minacce. 

A cura di Lucio Buonanno