Li abbiamo visti piangere per il dolore, abbracciarsi per darsi forza, a volte per fortuna anche sorridere di fronte a un paziente guarito o a un segno di speranza. Con i segni delle mascherine sul volto. Gli occhi provati dal dolore, stanchi ma determinati nel mettere se stessi al servizio del paziente. Sono loro, i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari il simbolo (insieme ai pazienti) e il volto di questi mesi di emergenza Coranavirus. Volti di uomini e donne che, per settimane, hanno sacrificato la loro vita con turni estenuanti, hanno “lasciato” i loro cari, mariti, fidanzati, compagni, figli per non correre il rischio, una volta tornati a casa, di contagiarli. Non si sono mai tirati indietro né risparmiati nonostante la paura o la stanchezza. Ma non chiamateli eroi, non vogliono. Loro hanno sempre svolto la loro “missione” con dedizione e impegno, anche nella “normalità”, prendendosi cura dei pazienti con “scienza e coscienza”.

Tante storie, tante testimonianze che spesso si sono incrociate. Come quella del dottor Giorgio Scanzi, bergamasco di San Pellegrino Terme, primario all’Ospedale di Codogno. Doveva andare in pensione il 29 febbraio, a 65 anni, ma davanti a un’emergenza di tale portata ha deciso di rientrare nell’”occhio del ciclone”, proprio nel cuore del focolaio da coronavirus ed è tornato in corsia. Proprio nell’ospedale dove il 21 febbraio è arrivata la conferma della positività al virus del primo italiano, un paziente trentottenne. «Non sono un eroe, nient’affatto: mi sono comportato come ogni persona civile deve fare. E poi, il mio lavoro è proprio questo, stare al servizio dei malati» ha commentato in un’intervista. «Ero in ferie, stavo facendo quelle residue quando si è presentato il primo caso. Nei progetti iniziali, sarei dovuto rientrare per un giorno solo, per passare le consegne a fine mese». E invece ha scelto diversamente. «Eh sì, diciamolo chiaramente: le mie origini bergamasche si vedono in questo. Ho proprio l’animo del classico muratore bergamasco: quando costruisco qualcosa voglio finirla e finirla bene. Certo, mai mi sarei immaginato di chiudere la mia carriera ospedaliera con una emergenza simile. Diciamola così, una cosa del genere non mi era mai capitata e non mi capiterà più».

Sono stati giorni frenetici, senza sosta. E come il primario di Codogno tanti, medici, infermieri e operatori sanitari, hanno rinunciato alle ferie, alla famiglia per stare vicino ai pazienti che soprattutto nella Bergamasca continuavano a riempire le terapie intensive e i reparti Covid. La loro vita è cambiata completamente all’improvviso. I ritmi di vita, in corsia e al lavoro, stravolti. Gli affetti allontanati per il loro bene, anche i figli piccoli ai quali ciascuno di loro, a modo suo, ha spiegato cosa fosse questo “mostro” che impediva di vedere mamma e papà. E in corsia, medici di tutte le specialità, chirurghi, ortopedici, fisiatri, cardiologi, insieme in un fronte comune nella guerra contro la malattia, gomito a gomito, senza differenze di qualifiche e gerarchie. Tutto per poter dare ai pazienti la miglior assistenza possibile, con farmaci e terapie certo ma anche con tantà umanità. Un’umanità fatta anche di carezze.

Carezze e strette di mano con i pazienti intubati che respirano a fatica attaccati a un tubo dell’ossigeno o con i pazienti ricoverati nei reparti. «In questa situazione così drammatica, in cui non potevano avere accanto i parenti, abbiamo cercato di essere per loro figli, genitori, fratelli e sorelle. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per far loro sentire meno la solitudine e vederli sorridere anche solo per un istante» dice un infermiere.

Emozioni, momenti e immagini che tutti loro hanno vissuto e non dimenticheranno mai. Come racconta un’infermiera di una certa età, una dei tanti pensionati che sono rientrati in ospedale per dare un aiuto ai colleghi affaticati dai lunghi turni. «Vestita come un astronauta, tuta, maschera, visiera, di me si vedono solo gli occhi, comunichiamo con gli occhi. Sto per smontare dal turno di notte, devo fare la doccia come previsto. E invece mi avvicino al letto di una signora che non può parlare perché ha subito una tracheotomia. Parlano però i suoi occhi, piange. Ha bisogno di compagnia, di qualcuno che le faccia coraggio, la faccia sentire meno sola, forse pensa ai suoi cari che non può vedere da giorni. Mi siedo accanto a lei e le stringo le mani. Stiamo così. Lei comincia a rasserenarsi, a sorridere. Cerca di farmi capire qualcosa. Interpreto quel movimento delle labbra come un “grazie”. Ed è la sensazione più bella, quel grazie vale più di tante medaglie».

Una task force di fisioterapisti all’ospedale da campo
Tra i sanitari in prima linea nell’emergenza Covid c’è anche Paolo Valli, fisioterapista membro del nostro Comitato Scientifico, che, insieme a un gruppo di altri 40 fisioterapisti volontari, fin dall’inizio di marzo, si è messo a disposizione del personale delle strutture Covid bergamasche. La FisioTaskForce, questo il nome del gruppo di fisioterapisti (la maggior parte dei quali in pausa lavorativa per le limitazioni imposte dai decreti sulle aree a più alto rischio), in questi mesi ha lavorato insieme con i professionisti dell’Ospedale Papa Giovanni, della Protezione Civile, dell’ANA, di Emergency e con l’équipe russa. “La nostra mission è stata fin da subito quella di mettere in campo non solo le nostre competenze specifiche fisioterapiche ma anche quella di essere di supporto al resto del personale sanitario che opera nelle strutture Covid” spiega Valli, coordinatore del gruppo.“ “In acuto, ci siamo occupati, insieme a medici e infermieri, del monitoraggio, verificando che i pazienti fossero ben posizionati ed eseguendo mobilizzazioni o manovre utili per una migliore risposta alle terapie; nelle fasi post-acute abbiamo ricercato una riattivazione graduale attraverso il recupero del movimento, della posizione seduta, della stazione eretta e poi del cammino, monitorando il buon andamento della funzione respiratoria e dell’ossigenazione”. Oltre al servizio all’Ospedale da Campo, i fisioterapisti di FisioTaskForce hanno offerto il loro supporto alle strutture di sorveglianza sanitaria istituite negli hotel della Bergamasca. “Come coordinatore e responsabile del Progetto FisioTaskForce Bergamo, ringrazio tutto il team per aver risposto alla call lanciata e perché, con semplicità e forza, ha garantito la presenza in turni continuativi e forti”. Ora che la situazione sta tornando lentamente alla normalità resta il ricordo di un’esperienza che di certo non dimenticheranno. “Per tutti noi è stata un’esperienza indelebile, una missione. Leggere negli occhi dei pazienti la ritrovata speranza nel domani è stata una grande emozione ed è quello che tutti speriamo per coloro che hanno dovuto combattere con questo maledetto virus”.

A volte basta un grazie per dimenticare la stanchezza, per recuperare la forza e ripartire lontani dalla famiglia. «Non vedo i miei due figli da mesi» mi raccontava nei giorni della pandemia un amico medico. «Quando torno a casa, se torno, mi tengo lontano da mia moglie e dai ragazzi. Ho paura di contagiarli. Dormo sul divano, mangio da solo. Ci vediamo sui social come capita a tante persone con i loro familiari lontano. Penso ai nonni che non possono abbracciare i nipotini. Purtroppo è così ma è meglio fare attenzione. Questo virus fa paura e ci perseguiterà per mesi. Ha già fatto tante vittime con una virulenza incredibile, anche tanti miei colleghi, tanti infermieri».

163 medici e 39 infermieri hanno pagato con la vita la dedizione ai pazienti che gli erano affidati dall’inizio della pandemia. Agli infermieri ha rivolto un pensiero Papa Francesco nella giornata internazionale a loro dedicata il 12 maggio. “Preghiamo per loro, uomini, donne, ragazzi e ragazze che svolgono questa professione che è più di una professione, è una vocazione, una dedizione. Che il Signore li benedica. In questo tempo di pandemia hanno dato esempio di eroicità e alcuni hanno dato la vita”.

«Il rischio della positività nella nostra categoria, come in quella dei medici, è molto elevata» commenta il Presidente bergamasco dell’Ordine degli infermieri, Gianluca Solito. «Questi colleghi continuano a mettere in pericolo la propria salute, quella dei cittadini e delle famiglie. Sono professionisti laureati, specializzati con competenze uniche. Ma con uno stipendio di 1.450 euro al mese. E siamo l’asse portante del sistema salute, non siamo super-eroi ma vogliamo il giusto riconoscimento per essere considerati professionisti con la P maiuscola al servizio dei cittadini».

a cura di Lucio Buonanno