Dei 10.300 interventi eseguiti sul cuore quello che ricorda con più emozione è il primo trapianto all'Ospedale di Bergamo. «E chi se la scorda più la notte tra il 22 e il 23 novembre 1985. Avevo 37 anni e il mio maestro Lucio Parenzan mi diede l'onore di eseguirlo. Gliene sarò grato per tutta la vita anche se in quei momenti mi sentivo come se dovessi scalare l'Everest. Era il terzo trapianto in Italia, ma noi, agli Ospedali Riuniti, eravamo pronti da giorni. E avevamo deciso di eseguirlo su un paziente a basso rischio. Poi però fu ricoverato un altro paziente che aveva avuto un edema polmonare il giorno prima e con Parenzan decidemmo di essere coraggiosi e di tentare un intervento difficile. La fortuna aiuta gli audaci e non ci fu nessuna complicazione». Il professor Paolo Ferrazzi, uno dei massimi esperti di cardiochirurgia, direttore fino a giugno del dipartimento cardiovascolare e dell'unità di cardiochirurgia dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII, quasi si commuove. «Il giorno dopo festeggiammo l'avvenimento. Intanto seguivamo il decorso del paziente. Non dormivo da 48 ore quando all'una di notte arrivò la telefonata "C'è un altro donatore". Preparammo di nuovo la sala operatoria. Io chiesi al paziente, Savino Fusaro, se se la sentiva. Mi rispose di sì. Per un mese non sono uscito dall'ospedale: ero lì a controllare i miei due trapiantati. Con Savino siamo diventati amici. Ci sentiamo spesso, una volta l'anno vado a trovarlo ad Andria, il suo paese. Ho tenuto a battesimo il suo terzo figlio nato dopo il trapianto: gli ha dato il mio nome. Ma la vera soddisfazione è sapere che un uomo dato per spacciato ha potuto riprendere una vita normale e ricominciare anche a giocare a tennis». Già, perché lo sport, dopo la medicina, è una delle grandi passioni del professor Ferrazzi: oltre al tennis che pratica ancora, è stato nelle Nazionali giovanili di rugby, ha corso in Formula 3 fino alla laurea o meglio fino a quando la sua scuderia, svizzera, l'ha messo fuori squadra "perché rompevo troppi motori". Adesso, a 65 anni, si dedica alla pesca subacquea. «Una volta l'anno vado nello Sri Lanka dove i miei amici hanno una casa e mi do da fare anche in cucina, provo le ricette con quello che pesco. Il mio piatto forte però resta il risotto con le seppie, una ricetta di mia madre».

Una carriera nel segno della scienza e dell'umanità
Il professore ha un curriculum di tutto rispetto, ha inventato due tecniche particolari per curare i malati di cuore, è stato il primo a usare il cuore artificiale e a fare il trapianto cuore-polmoni, ed è direttore dell'International Heart School che ha "sfornato" ben 46 primari e due ministri della Sanità nei Paesi in via di sviluppo. Un impegno che mantiene anche ora che è andato in pensione e collabora con il Policlinico di Monza. È arrivato a Bergamo nel 1972 fresco di laurea all'Università di Roma. «Nella capitale sembrava impossibile riuscire a realizzare il mio sogno: fare il chirurgo» ci dice. «E allora ho comprato un biglietto del treno a lunga percorrenza e sono andato in vari ospedali. Alla fine mi sono fermato a Bergamo che stava diventando un centro di eccellenza per la cardiochirurgia». Ed è cominciata un'avventura scientifica che l'ha portato in tutto il mondo per lezioni, interventi, convegni, e che ora mette a disposizione degli altri. «La solidarietà è fondamentale: le nostre esperienze vanno messe a disposizione di altri Paesi più svantaggiati. Bergamo è davvero un centro di cardiologia e cardiochirugia eccezionale e per certe malattie siamo diventati un polo di riferimento in Europa come per la miocardiopatia ipertrofica che può causare la morte improvvisa degli atleti». Mentre chiacchieriamo, i ricordi si affollano. Come quello di una bambina sarda di 12 anni arrivata agli Ospedali Riuniti in preagonia. «La mamma era sconvolta. Continuava a dirmi: "Professore, tre giorni fa correva sui pattini, poi la crisi". Abbiamo subito attaccato la piccola al cuore artificiale e poi è arrivato il trapianto. Quando è andata via scherzando le ho detto: "Tra un mese, quando tornerai, ti voglio vedere in corridoio correre sui pattini". E l'ha fatto. Che emozione!». Non sempre però è un successo. «Ci sono purtroppo delle tragedie per patologie molto complesse. Quando perdo un malato sto malissimo. Mi aiutano molto le lettere dei familiari che mi ringraziano per il nostro lavoro anche se senza risultati positivi».

Il futuro? Tra pazienti e orto
Adesso comincia una nuova avventura a Monza. «Cercherò di mettere sempre più al centro il paziente. La medicina è un'arte, ma devi anche innamorarti di chi stai curando, non solo della sua patologia. Bisogna ricordare che per ogni persona il giorno dell'operazione è il più importante della vita. Per troppo tempo abbiamo pensato solo alle strutture, che sono solo il 30 per cento del problema. Abbiamo grandi progetti: uno in Romania e uno in Africa forse con Gino Strada. Dobbiamo sempre tener presente che la chirurgia deve cambiare la vita, in meglio, ai malati». Intanto si dà da fare anche nella sua casa alla Roncola. «Ho messo i pannelli solari, coltivo l'orto, faccio le conserve di frutta, produco 100 litri di vino l'anno. È una scelta autarchica per non dipendere da nessuno». Tutto da solo usando le stesse mani che in sala operatoria hanno salvato migliaia di vite.

Il professor Ferrazzi è nato a Venezia nel 1948. Seguendo il padre, dirigente di una multinazionale, è stato a Palermo, Napoli, Roma. Si è laureato all'Università di Roma nel 1972, si è specializzato in chirurgia pediatrica nel 1975, in chirurgia cardiovascolare nel 1978. è stato negli Stati Uniti, in Francia. Dal 1973 è a Bergamo nell'équipe di Lucio Parenzan. Dal 1995 al 1999 lavora al CNR di Massa, poi torna a Bergamo come primario del dipartimento cardiovascolare degli Ospedali Riuniti. Ha due figli Matteo, economista a Vienna che ha recentemente scritto un libro "Me ne vado all'Est" e che gli ha dato due nipotini (Stefano e Giulia), e Claudia, già vicedirettrice del Louvre di Parigi e ora segretaria generale dell'Accademia di Francia a Roma, mamma di Diane e Dafne. Alla cerimonia per la pensione il papà, 97 anni, ha tenuto un commovente discorso. I collaboratori hanno regalato al professore un quadro «in cui sono ripreso con aspetto baronale. Lo darò al primo dei miei nipotini che deciderà di iscriversi a medicina.

A cura di Lucio Buonanno