Pochi rischi e risultato certo. Sono queste le cose che una mamma in attesa chiede a un’indagine prenatale. Ad oggi la certezza è fornita solo da esami invasivi che però hanno un rischio di aborto che va dallo 0,3% fino all’1%. Per questo, da anni, lo sforzo della scienza è stato quello di mettere a punto un test non invasivo. Tra questi il più promettente è il NIPT (Non Invasive Prenatal Test), che si basa sulla ricerca del DNA fetale nel sangue materno. Ma quanto è attendibile? Può sostituire esami prenatali più invasivi? Ne parliamo con il dottor Nicola Strobelt, ginecologo.

Dottor Strobelt, si sente sempre più spesso parlare del test sul DNA fetale per la diagnosi prenatale. In cosa consiste e su quali principi si basa?
Si tratta di un test, eseguito alla 12esima settimana di gestazione, che associa a una valutazione ecografica un prelievo del sangue. Si basa sulla possibilità di identificare nel sangue materno la presenza di DNA libero circolante, cioè non incluso in cellule. L’analisi della frazione fetale di questo DNA libero circolante attraverso varie tecniche consente di calcolare il rischio di malattia cromosomica a carico del feto.

Quali anomalie, in particolare, è in grado di rilevare?
È stato testato per la definizione del rischio della trisomia 21 (Sindrome di Down), della trisomia 18, della trisomia 13 e di alcune anomalie dei cromosomi sessuali (X e Y). È importante però sottolineare che attualmente deve essere considerato test di screening e che non è in grado da solo di rilevare o escludere un’anomalia cromosomica. Sono in avanzata fase di studio anche approcci per la diagnosi delle microdelezioni cromosomiche (anomalie cromosomiche caratterizzate dalla perdita di un tratto cromosomico di piccole dimensioni) e delle anomalie genetiche, così come è possibile utilizzare queste tecniche per altre applicazioni, ad esempio per definire il gruppo sanguigno di un feto.

Ma quanto è affidabile e attendibile?
È estremamente affidabile nel definire il rischio di trisomia 21. Infatti riesce a identificare come ad elevato rischio più del 99% delle gravidanze in cui il feto è portatore della Sindrome di Down. È un po’ meno sensibile per altre patologie, come la trisomia 18, la trisomia 13 o le anomalie dei cromosomi sessuali.

Può sostituire completamente altri esami prenatali più invasivi (amniocentesi, villocentesi o prelievo di sangue cordonale)?
Assolutamente no. Ogni caso definito “ad alto rischio” richiede un test diagnostico invasivo per la definizione certa del tipo di anomalia cromosomica eventualmente presente. Nel caso inoltre all’ecografia del primo trimestre si evidenziassero determinate anomalie, c’è l’indicazione a non eseguire questo test di screening ma a procedere direttamente alle indagini invasive.

Quali sono i vantaggi di questo esame rispetto alle indagini "tradizionali" di screening (Traslucenza Nucale, Bi-test, Test integrato del primo e secondo trimestre)?
Questo nuovo approccio ha due innegabili vantaggi. Il primo, quello di aver migliorato la capacità di identificare correttamente i casi portatori di anomalia cromosomica, con particolare riferimento alla Sindrome di Down. Il secondo, quello di ridurre di più del 95% la necessità di ricorrere, dopo il test di screening non invasivo, a un test diagnostico invasivo quando non necessario (prelievo di villi coriali, amniocentesi, prelievo di sangue cordonale) grazie ad un bassissimo rischio di avere risultati falsamente positivi (false positive rate). Questo significa per le future madri minori falsi allarmi e minori metodiche invasive, potenzialmente pericolose.

Quali sono invece i limiti di questo nuovo approccio nello screening delle anomalie cromosomiche?
Il prelievo potrebbe non contenere abbastanza DNA libero fetale per una determinazione attendibile. Succede in circa il 2% dei casi. In altre situazioni, come nelle gravidanze gemellari, oppure dopo metodiche di procreazione assistita, la definizione del rischio di anomalia cromosomica potrebbe avere dei tassi di errore maggiori di quelli riferiti alla gravidanza singola ottenuta naturalmente.

Per chi può essere consigliabile e in quali situazioni?
Può essere consigliato a tutte le coppie interessate a definire in maniera precisa il rischio di anomalia cromosomica fetale. Non esiste però un’indicazione “automatica”. Non facendo parte dei cosiddetti esami di routine, è bene che prima di decidere se ricorrervi o no ogni coppia abbia un colloquio approfondito col proprio ginecologo.

È rimborsato dal Sistema Sanitario Nazionale?
No. Deve essere eseguito privatamente, con costi che variano dai 600 ai 900 euro. Recentemente il Consiglio Superiore della Sanità ha emanato linee guida che consigliano di eseguire questo test in centri in cui siano garantite un’ecografia di inquadramento del primo trimestre e un’accurata consulenza prima di eseguire il prelievo. È auspicabile, inoltre, che i centri in questione siano in grado di eseguire una valida consulenza genetica nei casi di test positivo (ad alto rischio), in modo da spiegare bene il senso del risultato e indicare il successivo percorso di diagnosi invasiva. La scelta del centro deve essere quindi concordata con il proprio ginecologo perché questo approccio, potenzialmente molto utile, sia gestito nel migliore dei modi.

a cura di MARIA CASTELLANO

ha collaborato il DOTT. NICOLA STROBELT
Specialista in Ostetricia e Ginecologia
- RESPONSABILE MEDICINA MATERNO FETALE A.O. PAPA GIOVANNI XXIII BERGAMO -