Chirurgo, alpinista, suonatore di percussioni andine, esperto di quinoa: la sua origine boliviana è sempre presente nella vita del dottor Luis Burgoa, arrivato a Bergamo da La Paz negli anni Settanta.

 

Ha operato per quattro anni al Policlinico San Marco di Zingonia, per 23 a quello di Ponte San Pietro, per 10 a Treviglio. Ora si gode la pensione e ha scritto un libro sulla sua storia avventurosa : “Trapianto umano dalle Ande alle Orobie”. Tiene conferenze sulle eccezionali virtù nutrizionali della quinoa, coltivata nelle Ande da cinquemila anni e dal valore proteico elevato, appena piantata con gli amici del Comitato Proquinoa Bergamo, all’Orto Botanico, ma continua a scalare le vette spesso in compagnia delle figlie: nel suo palmares ci sono il Cervino, il Monte Bianco, il Cho Oyu (la sesta montagna più elevata della Terra sul confine tra Cina e Nepal con 8201 metri), alcuni 6 mila della sua Bolivia e tante cime, anche innevate, bergamasche.

Figlio “d’arte” con la medicina nel sangue
Il dottor Burgoa ci riceve nel suo studio di Ponte San Pietro. È abbronzato. È appena stato a fare una gita scialpinistica impegnativa sulle Prealpi orobiche con le figlie Martina e Naire che hanno la stessa passione. «Sono nato a La Paz, mio padre era farmacista e docente universitario di tossicologia e botanica, mamma laureata in scienze biologiche» racconta. «Io volevo diventare medico e ci sono riuscito. Anche mio fratello, più piccolo, è diventato cardiochirurgo e ora lavora in Colombia. Allora, quando mi sono laureato in Bolivia non c’erano specializzazioni e io sognavo di fare il chirurgo. All’università ho fatto tanta pratica alla Clinica chirurgica con il professor Arinez soprattutto quando nel 1964 ci fu l’attacco alle roccaforti del governo. Al nostro ospedale arrivarono tanti ferirti e noi studenti fummo tutti impegnati nei soccorsi. Poi ci fu la laurea e, come prevedeva la legge boliviana che obbligava i neolaureati a prestare servizio per un anno fuori dalle grandi città, data la carenza di medici nelle aree rurali, fui costretto a fare il medico in paesini sperduti della foresta boliviana».

La realizzazione del sogno: diventare un “vero” chirurgo
«Ma io volevo fare il chirurgo» continua il dottor Burgoa. «Un mio amico medico boliviano, che stava facendo la specializzazione a Bergamo con il professor Valentino (all’epoca direttore del reparto di Chirurgia I dell'Ospedale Maggiore), mi mise in contatto con lui che mi accettò come volontario. Un’esperienza bellissima. Erano gli anni Settanta e i bergamaschi non vedevano certo di buon occhio noi stranieri. Fui ospite del Patronato San Vincenzo dove trovai un ambiente sereno, accogliente. Ebbi la fortuna di conoscere don Bepo Vavassori e tutti i suoi collaboratori. Accanto a loro imparai cosa significa essere uomini per gli altri. E intanto per 14 mesi seguii il professor Valentino: parlava poco, ma per lui parlavano le sue mani. I chirurghi di quei tempi erano tuttologi, operavano di tutto, dal nervo facciale ai polmoni, all’esofago. Un’esperienza incredibile umiliata però dalla scoperta che la mia laurea non era riconosciuta in Italia. Ma non mi persi d’animo, ricominciai a studiare e superai i vari esami e riuscii a convalidarla».

Nel frattempo Burgoa però deve mantenersi economicamente, lascia il volontariato e cerca lavoro in strutture private. «Qui feci di tutto, dal medico all’infermiere spesso sottopagato e umiliato» dice. Ma il suo sogno di diventare chirurgo lo aiuta a non mollare. E si iscrive all’esame di ammissione alla “specialità di chirurgia generale” con il professor Luigi Gallone che allora era un grande maestro in materia. «Il giorno dell’esame, conoscendo le mie difficoltà nella scrittura della lingua italiana, cercai di valorizzare le mie capacità nel disegno. Insomma risposi alle domande con disegni a colori: fegato, arterie, ernie, suscitando l’interesse degli esaminatori che osservavano le mie “risposte”. Ero soddisfatto, sicuro di aver superato l’esame. E invece altra delusione: i posti erano dieci e io mi classificai undicesimo. Qualche mese dopo però mi chiamò il professore: “Caro Burgoa gli studenti stranieri possono essere ammessi in sovrannumero. Datti da fare con il tuo consolato ma nel frattempo devi frequentare la scuola come se fossi stato ammesso”. Feci tutte le pratiche e finalmente cominciai il corso di specializzazione, cinque anni di chirurgia generale e poi di chirurgia d’urgenza e pronto soccorso». Intanto, nel 1972, nasce la prima figlia Loredana che ora lavora in chirurgia senologica all’Ospedale Papa Giovanni, e nel 79, a 37 anni, il dottor Burgoa viene assunto come aiuto chirurgo al Policlinico di Ponte San Pietro. «Qui mi trovai per la prima volta di fronte a una vera emergenza chirurgica. Il figlio tredicenne del nostro cardiologo si era ferito a scuola con un vetro che era penetrato nell’addome. Non c’era tempo da perdere. Il ragazzo passò dall’ambulanza alla sala operatoria. Dovetti bloccare l’emorragia, demolire una parte del fegato e ricostruire la vena cava. Un intervento difficile, stressante ma alla fine ti lascia tanta gioia dentro perché hai fatto davvero qualcosa di buono. Il ragazzo si salvò e ora fa l’avvocato negli Stati Uniti e ogni volta che torna a Bergamo ci vediamo, è una grande festa per me e per lui».

La passione per la montagna e la musica andina
Di interventi difficili, da allora, il nostro chirurgo ne ha fatti tanti. Anche sulle sue amate montagne salvando la vita ad alcuni alpinisti che a 5-6 mila metri di altitudine avevano avuto problemi di pressione arteriosa o cardiaci. Come quella volta sul monte Cho Oyu, sulla cui vetta, a 8201 metri, non è mai riuscito ad arrivare: si dovette fermare 70 metri sotto. Un rimpianto, come alpinista, “ripagato” però dalla gioia del medico, quella di aver ridato la speranza a tante persone, proprio come ha sempre cercato di fare anche in sala operatoria. Un cruccio addolcito dalle figlie e dalla sua band andina in cui suona le percussioni e la chitarra. «La montagna l’ho scoperta a Bergamo» dice. «In Bolivia facevamo solo passeggiate. Qui grazie al Cai di Ponte San Pietro ho cominciato ad arrampicarmi, prima solo passeggiate, poi sempre più su, verso le cime e ora il 29 maggio alle 21, grazie al Club Alpino di Bergamo, presento il mio libro al Palamonti in via Pizzo della Presonlana. Ma oltre alle scalate la mia passione è la musica andina. Con alcuni amici boliviani, trapiantati anche loro a Bergamo, abbiamo formato un gruppo musicale, Jatun Nan, per suonare le musiche della nostra terra che proponiamo nelle feste che le comunità boliviane organizzano e suoneremo anche al Palamonti la sera del 29 maggio».

UNA PIANTA SACRA CHE HA 5 MILA ANNI
La quinoa è una pianta erbacea annuale che cresce soprattutto in Bolivia, in Perù e in Ecuador. Non è né un cereale né un legume, ma è più strettamente imparentata con le piante degli spinaci e delle barbabietole. Sopporta le basse temperature, la siccità e i terreni molto salini. Viene coltivata da quasi 5 mila anni tra i 2.500 e 4.200 metri ma negli ultimi tempi si trova anche a livello del mare e nelle vallate tropicali. Per i popoli precolombiani era considerata una pianta sacra. «Ci sono circa 200 varietà» ci spiega il dottor Burgoa il cui papà nel 1930 aveva dedicato a questa pianta un libro. «Le più utilizzate per l’alimentazione però sono 5 (real, bianca, gialla, rossa, nera). La quinoa ha un elevato valore nutrizionale perché è ricca di aminoacidi, proteine, idrati di carbonio, sali minerali, fibre alimentari. Non ha colesterolo né gluteina, non forma grassi nell’organismo ed è di facile digestione, qualità per cui è entrata nell’alimentazione degli astronauti della Nasa, viene utilizzata nella dieta dei pazienti affetti da celiachia e nella profilassi dell’osteoporosi e del tumore al seno».

a cura di LUCIO BUONANNO