Italiani disperati, egoisti e rinchiusi in sé per colpa della crisi? Sbagliato. Secondo una ricerca del Censis è proprio il contrario. Le difficoltà economiche di questi ultimi anni non solo non ci hanno resi tutti più aridi e indifferenti, ma, a sorpresa, ci hanno fatto riscoprire l'altruismo e la solidarietà, valori peraltro già molto forti nella nostra realtà bergamasca tradizionalmente molto impegnata nel volontariato. I dati parlano chiaro: la voglia di essere altruisti coinvolge ben il 76% degli italiani, il 40% si dice molto disponibile a fare visita agli ammalati, più del 36% di dichiara pronto a rendersi disponibile in caso di calamità naturale, per contribuire al bene comune; tra le cose che rendono più felici, dopo la tranquillità personale e familiare, c'è aiutare gli altri. «In effetti questi risultati possono creare un certo stupore. Innanzitutto perché si potrebbe pensare che in un periodo di difficoltà economica le persone tendano a occuparsi principalmente dei propri bisogni; in secondo luogo perché poco si allineano con le tendenze della società contemporanea spesso legate all'individualismo» dicono la dottoressa Elena Tironi e il dottor Simone Algisi, entrambi psicologi. «In realtà, se si analizzano in modo più approfondito, non sono così inspiegabili».

In che senso, dottoressa Tironi?
Le situazioni critiche possono servire ad attivare alcuni processi psicologici e affettivi significativi: stare in prossimità attiva con la difficoltà, costruire una vicinanza organizzata, anche istituzionalizzata come accade nei servizi di volontariato, rappresenta una forma evoluta per fronteggiare le esperienze faticose della vita. L'impegno positivo in attività sociali e di volontariato è una modalità attraverso la quale la persona non fugge, non si isola, ma trova un modo per stare dentro la quotidianità, per quanto difficile che sia. Bisogna anche dire che un periodo caratterizzato da instabilità, come lo scenario attuale, spinge la persona a confrontarsi con l'essenziale del quotidiano. Oggi accade spesso che ci si senta smarriti, privati di quei riferimenti (come successo, guadagno e riconoscimenti personali) che garantivano il proprio equilibrio e la propria autostima. La persona è così costretta a rivedere il proprio quotidiano e a riscoprire la propria natura di essere sociale e relazionale. Ci si rende conto che se è possibile vivere da soli in condizioni di benessere, è molto più difficile affrontare la crisi in solitudine. Alcuni autori parlano addirittura di spinta (o pulsione) sociale come primo carburante di tutto lo sviluppo dell'individuo. L'altro in difficoltà, per certi aspetti, sono "io" in difficoltà. Non lasciare solo chi ha bisogno, quindi ci "rassicura" sulla nostra sorte nel momento in cui ci dovessimo trovare nella stessa situazione. Questo è un esercizio di empatia. L'empatia è un concetto strano, non immediato, sta a cavallo tra i pensieri e le emozioni: in quanto uomo, mi identifico con l'altro e posso sentire dentro di me quello che lui sente. Questo vale sia per la sofferenza sia per le emozioni positive che la nostra solidarietà genera. E qui entra in campo un concetto fondamentale, cioè la gratificazione. La gratificazione non è quantificabile, bisognerebbe misurare il valore dei sorrisi, dei grazie, degli sguardi di ritorno oltre all'esito dell'attività stessa. Il punto è che questo tipo di gratificazione è interattiva, relazionale, sociale appunto. È l'azione di ritorno dell'altro, della persona a cui abbiamo offerto il nostro servizio che ci coinvolge. La risposta dell'altro è autonoma e viene nella nostra direzione e agisce a livello degli affetti. Forse il sorriso di un bambino o il ringraziamento di un anziano che abbiamo aiutato entrano dritti nel cuore e permettono di scoprire dimensioni nuove della vita, a volte anche più profonde e forti.

Ma quindi, ci impegniamo nel volontariato per fare bene agli altri o perché ci fa sentire bene, dottor Algisi?
Questa è una critica che spesso viene sollevata. È legata all'idea che il volontariato, in alcuni casi, possa non essere gratuito o come si dice "disinteressato" ma risponda solo al bisogno di chi lo fa; bisogno di sentirsi apprezzato, valorizzato, utile e persino di non sentirsi solo. Secondo i critici si tradirebbe il messaggio di autenticità proprio del volontariato. Bisogna però, a questo proposito, fare alcune distinzioni. Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci preziosi, di avere riconoscimenti del nostro valore, di sentirci un po' speciali. Nelle dovute proporzioni questi bisogni sono normali e alimentano le nostre attività, in particolare quelle sociali, e aiutano ad avere la spinta in più per andare oltre. Il problema si verifica quando il sano bisogno di gratificazione diventa esigenza di grandiosità, come se la mia immagine e la stima che ho di me dipendessero esclusivamente dalla gloria e dell'applauso degli altri. In questo modo il rischio è sviluppare un senso di onnipotenza: sentendosi riconosciuto, gratificato, una persona "migliore" e da "ammirare", potrebbero emergere sentimenti di infallibilità che portano a non vedere più l'Altro ma a sostituirsi a lui. Questo è l'unico rischio quando si fa volontariato. Per il resto la solidarietà è di grande importanza poiché produce positività per il volontario, per il contesto sociale e per chi riceve aiuto: fare del bene produce del bene sia nel dare sia nel ricevere.

Competizione, no grazie
Anche la competizione è in crisi. La collaborazione e la condivisione sempre più vengono viste come valori che non danno solo sicurezza, ma garantiscono anche più sviluppo. E così le ambizioni personali, spesso, lasciano il posto ad altri tipi di gratificazione.

a cura di GIULIA SAMMARCO

con la collaborazione della DOTT.SSA ELENA TIRONI
Psicologa
- PRESSO LO STUDIO ALBERO DI PSICHE, SERIATE -
e
con la collaborazione del DOTT. SIMONE ALGISI
Psicologo
- PRESSO LO STUDIO ALBERO DI PSICHE, SERIATE -