Quante volte, prima di buttare via un oggetto, avete pensato "meglio tenerlo, potrebbe sempre servire"? La difficoltà a sbarazzarsi di qualcosa, che sia un vestito, un accessorio per la casa, un paio di scarpe, in nome di una sua presunta utilità futura, è un'esperienza molto comune. Talvolta è l'alibi del "potrebbe essere utile" a frenare, altre volte invece è il valore affettivo e rievocativo che alcuni oggetti portano con sé e che rende difficile separarsene. «Queste tendenze, complice la sovrabbondanza tipica di una società consumistica, generano delle lente e progressive invasioni di spazi della casa, dagli armadi pieni di vestiti di qualche taglia fa alle soffitte colme di giocattoli destinati a moltiplicarsi a ogni Natale» dice la dottoressa Roberta Cattani, psicologa. «Tuttavia, secondo una recente indagine, le persone usano realmente soltanto il 20 per cento delle cose che possiedono, mentre il rimanente è da considerarsi superfluo. Ecco allora che il cambio di stagione può rivelarsi un'ottima occasione per fare un po' di ordine e decomprimere gli spazi, attraverso la tecnica anglosassone del "decluttering", che letteralmente significa "eliminare ciò che ingombra"».

Dottoressa Cattani, cosa scatta per cui diventa così difficile separarsi dagli oggetti inutili?
La conservazione degli oggetti dipende soprattutto da aspetti psicologici che solo in minima parte hanno a che fare con la reale possibilità di un loro successivo utilizzo. Se infatti questo atteggiamento fosse supportato da un processo decisionale maggiormente razionale, apparirebbe evidente la sproporzione tra l'esiguo numero di occasioni in cui si trae un effettivo beneficio dalla riscoperta di un vecchio oggetto e gli svantaggi che invece derivano dalla costante presenza in casa di una quantità di prodotti che occupano spazio e generano disordine. Questo avviene perché, nello scegliere, l'individuo tende inconsapevolmente a servirsi di una strategia cognitiva detta "euristica della disponibilità". Si tratta di una scorciatoia di pensiero che interviene quando si valuta la probabilità di un evento futuro in base alla presenza di un evento analogo in memoria, piuttosto che sulla base della sua probabilità oggettiva. Più semplicemente, se ho ricordo di una circostanza passata in cui si è rivelato utile aver conservato un oggetto, questo tenderà a influenzarmi e a indurmi a non buttare qualcosa anche questa volta, perché sono più portato a considerare il fatto che potrebbe servirmi in futuro. Questo meccanismo risulta poi talvolta potenziato anche da una forma di insicurezza che trova rassicurante poter contare sull'atteggiamento prudente del "potrebbe sempre servire". In altre parole, ogni scelta implica un rischio e quindi una quota d'ansia: scegliere di non buttare un oggetto rappresenta allora per alcune persone una strategia di evitamento e di allontanamento dell'ansia, perché solleva dal rischio di sbagliare sia che si riveli utile aver conservato l'oggetto in questione sia che questo non accada. Inoltre questo atteggiamento consente di mantenere un "confortante" legame con il passato.

E cosa si può fare per uscire da questi meccanismi e decidersi a fare pulizia?
Per poter procedere a un'operazione di decluttering innanzitutto bisogna cercare di valutare l'effettiva utilità degli oggetti nel modo più realistico possibile, rendendosi conto che spesso si tratta di oggetti di cui si può fare a meno poiché rappresentano la semplice estensione dei propri dubbi. Si può procedere gradualmente, partendo da ciò che si considera meno rilevante, per arrivare man mano a eliminare anche gli oggetti da cui risulta più difficile distaccarsi, una volta che si sia acquisita confidenza con il processo. Imparare a liberarsi del superfluo aiuta l'autostima e il senso di autoaffermazione, perché restituisce da subito quella percezione di autoefficacia che nasce dall'essere stati in grado di liberarsi dai propri dubbi. Inoltre si genera un alleggerimento anche mentale, che crea maggiore apertura per nuova energia vitale.

Quando la tendenza ad accumulare, questioni di spazio a parte, può diventare un problema?
Esistono casi in cui si può instaurare una vera e propria patologia, la disposofobia, più nota come accumulo patologico. Si tratta di un disturbo ossessivo caratterizzato dall'estrema incapacità a liberarsi di oggetti inutili e dal loro conseguente accatastamento in quantità così ingenti da arrivare a rendere difficoltoso persino il movimento negli spazi. Ha un'incidenza più alta di quel che si possa pensare (tra il 2 e 5%) ed è stata inserita nella nuova edizione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) come entità diagnostica a sé stante, anche se sono frequenti le correlazioni con altri disturbi, come il disturbo ossessivo compulsivo e il disturbo ossessivo compulsivo di personalità. Un aspetto problematico dell'accumulo compulsivo è che in genere non viene riconosciuto da chi ne è affetto ed emerge solo dopo che la persona si è rivolta a uno specialista per altri problemi o quando gli effetti del disturbo pregiudicano severamente la sua capacità di svolgere normali attività e il rapporto con i familiari conviventi.

E come si può guarire?
Una terapia dimostratasi particolarmente efficace per questo tipo di disturbo è quella cognitivo-comportamentale, che lavora sulla "ristrutturazione" delle credenze sottostanti l'accumulo e sugli schemi di pensiero che ne favoriscono il mantenimento, oltre che sul potenziamento delle capacità decisionali e organizzative. Al contrario, la semplice rimozione dell'accumulo non risolve mai il problema e può anzi comportare un forte rischio per l'insorgenza di altri disturbi, ad esempio di carattere depressivo. Il cambiamento è dunque possibile e una buona terapia, intervenendo direttamente alla base del disturbo, può dare ottimi risultati.

a cura di MARIA CASTELLANO 
con la collaborazione della DOTT.SSA ROBERTA CATTANI
- PSICOLOGA A BERGAMO -